Eginardo, Vita di Carlo Magno ("Vita Karoli")

Eginardo allo scrittoio (Grand Croniques de France, miniatura del secolo XV)

Eginardo nacque a Maingau, nella valle inferiore del Meno, l'1 o 2 marzo del 775, ma crebbe a Fulda, nella celebre abbazia benedettina, dove ricevette i primi insegnamenti nelle arti liberali (trivio e quadrivio) sotto l'abate Baugulfo. Nel 792 o 794 si spostò alla corte di Carlo Magno ad Aquisgrana, e lì divenne discepolo del celebre Alcuino di York, rettore della Schola Palatina. Secondo il costume degli intellettuali che ruotavano intorno ad Alcuino e alla corte carolingia, per cui ciascuno doveva assumere il nome fittizio di un autore classico o del passato (Alcuino stesso, ad esempio, era soprannominato Flacco, cognomen di Orazio), Eginardo ebbe in sorte - pare per iniziativa dello stesso Alcuino - il nome di Bezalel, personaggio biblico che costruì l'Arca dell'Alleanza, a causa delle sue notevoli capacità in campo costruttivo: essendo infatti possessore di un codice del De Architectura di Vitruvio, a corte ebbe l'incarico di occuparsi dei lavori di costruzione del Palazzo Imperiale, e della stessa Cappella Palatina.
Dopo l'addio di Alcuino alla corte di Aquisgrana nel 796, per diventare abate di San Martino di Tours, Eginardo prese il posto del maestro, divenendo a sua volta responsabile della Schola Palatina. Alla morte di Carlo Magno, divenne poi segretario di Ludovico il Pio, figlio di Carlo (a partire dall'814), e del di lui figlio Lotario. Rimasto nel frattempo vedovo (la moglie pare si chiamasse Imma), si ritirò a vivere in monastero: nell'836 fondò infatti l'abbazia di Seligenstadt in Assia, dove aveva fatto traslare dalle catacombe romane le reliquie dei santi Marcellino e Pietro, e lì, divenutone abate laico, e ritiratosi definitivamente dalle attività di corte, trascorse gli ultimi anni della sua vita. In una sua lettera (n° 10) di datazione incerta (di lui ci rimane fra l'altro un Libellus epistolarum, un corpus di 71 lettere originali), ma forse databile ai primi mesi dell'830, egli si congeda da Ludovico il Pio con queste parole: «Prego e imploro insistentemente la Vostra grande clemenza di degnarsi di guardare me, misero peccatore, ormai vecchio e debole, con cuore pietoso e benevolo, di lasciarmi sciolto e libero dalle cure mondane e di concedermi di vivere nella quiete e nella tranquillità presso la tomba dei beati martiri di Cristo, Vostri patroni, sotto la Vostra protezione, nell'obbedienza degli stessi Santi e al servizio di Dio e di Nostro Signore Gesù Cristo, cosicché l'ultimo e inevitabile giorno non mi sorprenda invischiato in preoccupazioni passeggere e superflue, ma dedito alla preghiera e alle pie letture, mentre esercito i miei pensieri alla contemplazione della legge divina».
Morì nella sua abbazia il 14 marzo dell'840.

La sua opera più celebre è la Vita Karoli (o Vita et gesta Karoli, 'Vita e imprese di Carlo'), un piccolo libello in 33 capitoletti (ma la divisione in capitoli non risale all'autore, ma si deve a Valafrido Strabone pochi anni dopo la morte di Eginardo), in cui si raccontano la vita e la figura di Carlo Magno, frutto del personale rapporto di stima e di amicizia che lo aveva legato per tanti anni all'imperatore franco.
L'opera è divisa in due parti: una prima parte (capitoli I-XVII) dedicata al personaggio pubblico, e una seconda parte (capitoli XVIII-XXXIII) - ben più interessante - dedicata al personaggio privato, all'uomo Carlo, al suo carattere, alla sua famiglia, ai suoi gusti culinari e in fatto di abbigliamento.
In una sorta di preambolo (Einhardi Praefatio, 'Prefazione di Eginardo'), Eginardo afferma - con retorica umiltà - di non essere in possesso degli strumenti retorici e letterari adeguati a intraprendere un'opera di tal fatta, lui «uomo barbaro e persona appena esercitata a fraseggiare nella lingua di Roma» (homo barbarus et in Romana locutione perparum exercitatus); ma di aver deciso tuttavia di accingersi alla scrittura in quanto testimone oculare della vita di un uomo grandissimo quale fu Carlo, verso il quale lo legavano vincoli di stima e di amicizia: «Ciononostante, non ho creduto, per varie ragioni, di rinunziare a questo lavoro; ero convinto, infatti, che nessuno potesse essere più di me nel vero per narrare avvenimenti ai quali intervenni di persona, che vidi, come si dice, coi miei stessi occhi [...] piuttosto che far coprire dalle tenebre dell’oblio la nobilissima vita di un grandissimo re, il più grande uomo certo della sua età, e le sue gesta inimitabili da parte di qualsiasi individuo dell’età moderna. Ma un’altra causa (e molto ragionevole mi pare) sarebbe, anche da sola, sufficiente per indurmi a scrivere la presente narrazione: la riconoscenza che provo verso chi m’ha dato il sostentamento, e l’amicizia eterna, annodata con lui e con i suoi figli, da quando cominciai a vivere in quella corte».
La prima parte della Vita Karoli inizia con un passo famoso che rievoca i primi re dei Franchi, ossia quei Merovingi, che nell'ultima fase del loro potere erano re di pura facciata, fantocci nelle mani dei cosiddetti maggiordomi di palazzo, i Pipinidi, destinati a subentrare ai Merovingi quali re, e antenati del re Carlo. La descrizione di Eginardo, ironica e sarcastica, ha molto contribuito alla creazione, nell'immaginario storico tradizionale, dell'idea dei Merovingi quali "re fannulloni": «non v’era nessuno, infatti, in quella famiglia, che avesse in sé qualcosa di notevole tranne quel vano appellativo di re. La ricchezza e la potenza del regno, erano, di fatto, nelle mani dei prefetti di palazzo chiamati «i maggiordomi», che detenevano tutto il potere supremo. Il sovrano, pago del suo appellativo regio, della sua lunga capellatura, della sua prolissa barba, doveva solo sedere in trono, atteggiandosi a dominatore, ricevere gli ambasciatori, che gli venivano da ogni parte, e consegnar loro, alla partenza, quelle risposte che o già conosceva o gli erano letteralmente imposte. Oltre a questo vano titolo di re e ad un precario appannaggio che gli passava (quando gli pareva) il prefetto di palazzo, il re non possedeva in proprio che una campagna, di modestissimo reddito, in cui era una casa con un piccolo numero di servi che badavano a lui e gli fornivano il necessario» (Cap. I).
Eginardo racconta poi succintamente come il potere sia passato ai Pipinidi, e da questi sia giunto nelle mani di Carlo. La cronaca continua poi con la narrazione sintetica delle imprese guerresche di Carlo, protratte lungo tutti i quarantasei anni del suo regno (dal 9 ottobre 768 al 28 gennaio 814); fra queste Eginardo ricorda in particolare la guerra contro i Longobardi (capitolo VI), la disfatta contro i Baschi in Spagna (cap. IX); e le guerre contro Sassoni (cap. VII) e Àvari, confederati degli Unni (cap. XIII).
La guerra contro i Sassoni, che durò ben trentatré anni (dal 772 all'804), fu quella più crudele, secondo Eginardo, costellata di massacri da ambo le parti, soprattutto, agli occhi del cronachista, per causa dei Sassoni, popolo descritto come infido, crudele, incline al tradimento e restìo ad abbandonare le proprie tradizioni e la propria religione pagana (demoniaca, agli occhi di Eginardo): «Nessuna lotta fu, per i Franchi, più lunga, più atroce e più faticosa di questa, perché i Sassoni, come, in genere, quasi tutti i Germani, feroci per natura, dediti al culto dei demoni, e nemici, quindi, della nostra religione, non rispettavano né i precetti umani né quelli divini e reputavano lecito l’illecito».
La guerra contro gli Àvari in Pannonia (l'attuale Ungheria) invece fu quella che fruttò alle truppe franche il bottino più ricco e favoloso: si arrivò infatti alla conquista del leggendario tesoro custodito all'interno del ring, un accampamento fortificato a forma di anello, all'interno del quale gli Àvari avevano accumulato il frutto di anni e anni di razzie e scorrerie ai danni dei popoli vicini: «Quante battaglie si siano combattute, quanto sangue sia scorso, sono lì ad attestarlo la Pannonia, vuota di ogni abitante, e la località nella quale sorgeva la reggia del Khagan, divenuta un deserto, in cui non è più possibile nemmeno scorgere i vestigi di quel che era un’abitazione umana. Tutt’intera la nobiltà degli Unni perì in questa guerra: tutta la loro gloria vi fu annientata. Furono messi a sacco tutto il loro danaro e tutti quei tesori che da tempo avevano ammassato: la memoria degli umani non ricorda nessuna guerra combattuta dai Franchi che li abbia arricchiti e colmati di ricchezze più di questa. Essi, che fino a quel giorno sembravano quasi poveri, trovarono tanto oro e argento in quella reggia, tante preziose spoglie catturarono in battaglia, da potersi affermare che i Franchi giustamente conquistarono agli Unni quanto ingiustamente era stato dagli Unni precedentemente strappato alle altre genti» (cap. XIII).
L'unica disfatta subìta dalle truppe di Carlo fu quella avvenuta in Spagna, contro i Baschi, che la leggenda successiva trasformò in Arabi, nella quale persero la vita moltissimi uomini, fra cui il conte Rolando (o Orlando). La disfatta avvenne nel 778, ma Eginardo non menziona il luogo dell'agguato, che invece l'epica successiva identificherà con Roncisvalle: «Mentre [Carlo] combatteva, quasi senza interruzione, questa lunga guerra contro i Sassoni, aveva disposto vari presidi nei posti adatti dei confini, ed aveva attaccato la Spagna con il maggior spiegamento di forze possibile. Passò la catena dei Pirenei, ricevette la sottomissione di tutti i castelli e le piazzeforti che incontrò sul suo cammino, rientrò, alla fine, in patria, con un esercito incolume. Però, nel viaggio di ritorno, ripassando il giogo dei Pirenei, fu provato dalla perfidia dei Baschi [Wasconicam perfidiam]; profittando del fatto che l’esercito, data la strettezza del passaggio, era obbligato a muoversi in lunghe file, apparecchiarono essi un’imboscata sulla cima di un monte, aiutati dalla circostanza che il luogo pareva creato per le insidie, ricco com’era di oscure selve. Si precipitarono dall’alto; gettarono nella sottostante valle gli ultimi carri e quei soldati che coprivano la retroguardia e li massacrarono, infine, fino all’ultimo. Poi saccheggiarono i carriaggi e, protetti dalla sopravveniente notte, si dispersero con ogni celerità [...] Caddero in questa battaglia, con molti altri, il siniscalco Eggiardo, il conte palatino Anselmo e Rolando [Hruodlandus], conte della Bretagna. E non fu nemmeno possibile vendicarli subito, perché i nemici, dopo aver perpetrato questo colpo di mano, si dispersero in modo da non lasciare alcuna traccia».
Nella seconda parte dell'opera Eginardo ci descrive finalmente l'uomo Carlo da un punto di vista privato, accantonando la figura pubblica dell'imperatore: «Era, re Carlo, di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che, pur tuttavia, non eccedeva una giusta misura, dato che misurava sette volte la lunghezza del suo piede. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva, seduto che fosse o dritto in piedi, una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Quantunque avesse un collo grasso e troppo corto ed il ventre un po’ sporgente, purtuttavia l’armoniosità delle altre membra celava questi difetti. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile: aveva una voce chiara che non aderiva, pur tuttavia, al suo corpo. La salute era eccellente ma, negli ultimi quattro anni di vita, andò frequentemente soggetto alle febbri, ed infine finì con lo zoppicare da un piede. Ma faceva di testa sua e non si curava del parere dei medici che aveva preso in grande fastidio, perché gli consigliavano di abbandonare, per le carni lesse, gli arrosti ai quali era invece abituato» (cap. XXII). 
Fra gli svaghi del re franco Eginardo ricorda la caccia, l'equitazione (di grande tradizione presso i Franchi), e i bagni: «Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin dalla nascita, perché non è possibile trovare al mondo chi possa paragonarsi ai Franchi in tali esercizi fisici. Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Eccelleva talmente in quest’esercizio che nessuno riusciva a sorpassarlo. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana: lì trascorse gli ultimi anni della sua vita abitandovi in permanenza. Invitava al bagno con lui non solo i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora persino tutte le proprie guardie del corpo. Avveniva così che, qualche volta, scendessero in acqua con lui oltre cento uomini» (Cap. XX).
Dal punto di vista dell'abbigliamento, Carlo vestiva secondo il tradizionale abito dei Franchi, non distinguendosi da un uomo del popolo nella vita di tutti giorni, sfoggiando abiti e ornamenti preziosi solo in occasione di cerimonie; non amava invece i costumi stranieri, fatta forse eccezione per l'abito tradizionale dei Romani che indossò in un paio di occasioni: «Vestiva sempre col costume nazionale dei Franchi: sul corpo indossava una camicia ed un paio di mutande di lino; su di esse poneva una tunica orlata di seta e i pantaloni. Portava fasce alle gambe e calzari ai piedi: d’inverno proteggeva le spalle ed il petto con un indumento confezionato in pelli di lontra o di topo. S’avviluppava in un mantello color verdognolo e portava sempre al fianco una spada con il pomo ed il fodero d’oro o di argento. Qualche volta faceva uso di un’altra spada dall’elsa gemmata, ma l’adoperava solo nelle grandi festività o quando riceveva gli ambasciatori stranieri. Rifuggiva dai costumi di altri paesi, ancorché bellissimi, e non amò mai indossarli, tranne che a Roma, una prima volta su richiesta di papa Adriano ed una seconda per preghiera del successore di lui, Leone. Allora acconsentì a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani. Nelle festività incedeva in una veste tessuta d’oro, con calzature decorate di gemme; una fibbia d’oro gli fermava il mantello, e s’ornava di una corona anch’essa d’oro e sfolgorante di gemme. Negli altri giorni, invece, il suo abito differiva poco da quello che usava il popolo» (Cap. XXIII).
A pranzo Carlo era molto morigerato: gli piaceva mangiare, ma non bere vino, del quale ne toccava pochissimo; mentre poi pranzava amava ascoltare musiche o letture edificanti (come il De civitate Dei di sant'Agostino), e dormiva poche ore a notte, sempre intento ad occuparsi delle faccende del suo regno e della giustizia: «Era assai sobrio nel mangiare e nel bere; nel bere soprattutto. Detestava l’ubriachezza in qualsiasi uomo e massimamente in sé e nei suoi. Del cibo, però, faceva poco volentieri a meno e spesso si lagnava dicendo che il suo corpo sopportava male i digiuni. Banchettava molto di rado e solo nelle grandi festività; ma allora con numerosi convitati. Il suo pranzo quotidiano si componeva di sole quattro portate, non contando l’arrosto che i cacciatori solevano presentargli sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musico o qualche lettore. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino e specie quella intitolata «De civitate Dei». Era talmente sobrio di vino e di qualsiasi altra bevanda che raramente, mentre pranzava, beveva più di tre volte. D’estate, dopo il pasto del mezzogiorno, mangiava qualche mela e beveva una sola volta; dopo di che si toglieva vesti e calzature, cosi come era solito fare la notte, e riposava due o tre ore. Di notte, durante il sonno, si svegliava dalle quattro alle cinque volte, non solo, ma si levava anche in piedi. Mentre si vestiva e si calzava, riceveva, d’abitudine, i propri amici; ma se il conte palatino gli riferiva che c’era una lite impossibile da comporre, ordinava di introdurre subito i litiganti e, come se fosse stato in tribunale, ascoltava le parti e pronunciava la sentenza. Né si limitava a questo: ma in quelle ore regolava tutto il lavoro che nel giorno dovevano esplicare i vari uffici ed ordinava a ciascun ministro cosa dovesse fare» (Cap. XXIV).
Il re franco coltivò sempre un grande amore per gli studi e per le arti liberali, affidandosi soprattutto ad Alcuino come maestro di palazzo; parlava fluentemente in latino, poco il greco, ma non riuscì mai a imparare a scrivere, essendovisi dedicato soltanto in tarda età: «Aveva facile e copioso l’eloquio e sapeva esprimere con molta chiarezza il suo pensiero. Non contento di conoscere la sola lingua patria, si diede ad apprendere anche le straniere, e tra queste imparò tanto bene il latino che era solito esprimersi in quell’idioma con la stessa facilità che nel proprio; il greco lo comprendeva meglio di quanto non lo parlasse; tutto sommato, era tanto facondo da sembrare persino prolisso. Coltivò con ogni cura le arti liberali e, pieno di rispetto per quelli che le insegnavano, li colmò di onori. Per imparare la grammatica ascoltò le lezioni del vecchio diacono Pietro Pisano: nelle altre discipline ebbe a maestro Alcuino, detto Albino (diacono anche egli), un britanno di origine sassone, l’uomo più dotto che allora ci fosse. Presso di lui dedicò molto tempo e molta fatica ad imparare la retorica, la dialettica e, principalmente, l’astronomia. Apprese il calcolo e si applicò con attenzione sagace e con ogni interesse a studiare il cammino degli astri. Tentò anche di scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena, per esercitarsi, quando ne aveva il tempo, a tracciare, di propria mano, varie lettere. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi» (Cap. XXV).
Carlo fu molto devoto dal punto di vista religioso: assisteva più volte al giorno alle funzioni liturgiche, pregava spesso, e teneva particolarmente al decoro e allo splendore delle chiese, e costruì la stessa Cattedrale di Aquisgrana con la Cappella Palatina: «Praticò sempre, e con ogni reverente devozione, quella religione cristiana nella quale era stato allevato sin dall’infanzia. Essa lo indusse a costruire la basilica di Aquisgrana, opera di stupenda bellezza, ad ornarla d’oro, di argento, di candelabri, di cancelli e di porte forgiate in bronzo massiccio. E, dato che non era possibile ricevere da altra parte le colonne e i marmi necessari alla costruzione, li fece venire da Ravenna e da Roma. Frequentava assiduamente la chiesa al mattino, alla sera, ed anche di notte, finché glielo permise la salute, per assistere alle funzioni divine. Vegliava, inoltre, con ogni zelo, a che tutte le funzioni si svolgessero con la maggiore dignità possibile e molto spesso ammoniva i custodi dei templi di non permettere che si portasse in essi cosa alcuna non adatta o sudicia e che vi rimanesse. Fornì le chiese di vasi sacri di oro e di argento e di una tal quantità di paramenti sacerdotali che nemmeno gli ostiarii, gli ultimi della gerarchia ecclesiastica, furono mai costretti a celebrare gli uffici divini con i propri abiti privati. Si occupò anche moltissimo di correggere la maniera di leggere e di salmodiare. Era molto esperto in ambedue le cose, quantunque non leggesse in pubblico e non cantasse se non a bassa voce e in coro con gli altri» (Cap. XXVI).
Se c'è però qualcosa in cui Carlo fu forse intemperante, questo è il numero delle mogli (e concubine, di numero imprecisato). Eginardo ne ricorda quattro: la figlia di Desiderio, re dei Longobardi (l'Ermengarda di Manzoni, ma il cui nome in realtà non ci è giunto), sposa di Carlo per pochi mesi e poi ripudiata; Idelgarda, appartenente all'alta nobiltà sveva; Fastrada, appartenente alla stirpe e non particolarmente amata a corte (Eginardo nel Cap. XX ricorda due congiure sventate ai danni di Carlo, e le attribuisce alla reazione nei confronti della crudeltà della donna); Liutgarda, alemanna. In tutto ebbe almeno una decina fra figli e figlie. Nei confronti di queste ultime fu un padre singolarmente protettivo, come racconta Eginardo: «Volle il re che i propri figli, maschi e femmine, fossero, prima di tutto, iniziati in quelle arti liberali che egli stesso professava. [...] Tanto ebbe a cuore l’educazione dei figli, che non pranzò mai senza di loro quando era nella propria casa e non si pose mai in viaggio senza la loro compagnia. I figli gli cavalcavano accanto e le figlie lo seguivano nella retroguardia; un certo numero di guardie del corpo, a ciò espressamente comandate, vegliava su di esse. Dato che queste figlie erano bellissime e che molto egli le amava, non ne volle dare nessuna in moglie (stranissima cosa) né ad alcuno dei suoi, né a qualche straniero. Le tenne, invece, presso di sé, nella sua casa, fino alla morte, dicendo che non poteva fare a meno della loro compagnia» (Cap. XIX).
Dal punto di vista delle riforme attuate da Carlo, Eginardo ci trasmette notizia delle raccolte di leggi, emanate o modificate da Carlo (anche se in questo caso, il tono del cronachista è stranamente riduttivo rispetto all'effettiva mole degli interventi del re franco in materia); e ci informa inoltre dell'intenzione dell'imperatore di realizzare una grammatica della lingua franca e di raccogliere le tradizioni e i poemi epici delle antiche popolazioni barbariche: ma di tutto ciò nulla è giunto ai nostri giorni. 
Curioso invece l'intervento di Carlo sul calendario, relativo in particolare all'adozione di una nuova nomenclatura ai mesi dell'anno, in lingua franca (molto vicina all'antico tedesco), che sostituiva i nomi tradizionali dei mesi in latino. Eginardo ci dà la lista completa dei nomi adottati per i mesi: gennaio, wintarmanoth “Mese dell’inverno”; febbraio, hornung “Mese bastardo” o “Mese del corno”; marzo, lentzinmanoth “Mese della Primavera”; aprile, ostarmanoth “Mese di Pasqua”; maggio, winnemanoth “Mese del pascolo” o “della gioia”; giugno, brachmanoth “Mese del dissodamento”; luglio, heuvimanoth “Mese del fieno”; agosto, aranmanoth “Mese della mietitura”; settembre, witumanoth “Mese della legna”; ottobre, windumemanoth “Mese della vendemmia”; novembre, herbistmanoth “Mese dell’autunno”; dicembre, heìlagmanoth “Mese sacro”.
La morte di Carlo viene così raccontata, nel capitolo XXX dell'opera: «Negli ultimi tempi della sua vita, già oppresso dalla malattia e della vecchiaia, chiamò a sé il figlio Ludovico, re d’Aquitania, l’unico che gli fosse rimasto dei figli di Ildegarda. Radunò solennemente i grandi del regno dei Franchi, associò al governo il figlio, col parere favorevole di tutti, lo nominò erede della dignità imperiale, e, dopo avergli posto sul capo la corona, ordinò che lo si chiamasse imperatore e augusto. [...] Dopo tale cerimonia, rimandò il figlio in Aquitania, ed egli, secondo il costume e nonostante la vecchiaia, se ne andò a caccia, non lontano dalla reggia di Aix. In siffatto modo passò il resto dell’autunno, e, verso le calende di novembre, ritornò ad Aquisgrana. Mentre vi svernava, nel gennaio dovette porsi a letto, assalito da una forte febbre. Allora, come soleva fare quando era ammalato, si mise a dieta, credendo di poter cosi debellare la malattia o, per lo meno, mitigarla. Alla febbre seguì quel dolore ad un fianco che i Greci chiamano pleurite, ma il re continuò ad osservare la dieta e non sosteneva il corpo altro che con qualche rara bevanda. Trascorsi sette giorni da quando s’era messo a letto, dopo aver ricevuto la sacra comunione, venne a morte. Aveva settantadue anni di età e si iniziava il quarantasettesimo del suo regno. Mancavano cinque giorni alle calende di febbraio ed era la terza ora del giorno [cioè alle nove di mattina del 28 gennaio]». Il corpo fu sepolto il giorno stesso nella Cappella Palatina della Cattedrale di Aquisgrana, dove si trova tuttora.
Il penultimo capitolo dell'opera (XXXII) Eginardo lo dedica ad elencare curiosamente - ma è tipico della mentalità dell'Alto Medioevo - i fenomeni naturali e i presagi funesti che avevano accompagnato gli ultimi anni del regno di Carlo, quasi segni premonitori della prossima morte del re: «Molti furono i presagi che segnarono l’approssimarsi della fine di lui, tanto che, non solo gli altri, ma egli stesso sentì quella minaccia. Per tre anni di seguito, negli ultimi tempi di quella vita, furono frequentissime le eclissi di sole e di luna, e nel sole, per sette giorni, fu scorta una macchia nera. Rovinò fino alle fondamenta, il giorno dell’Ascensione, un portico di grande mole che il re aveva fatto costruire tra la basilica e la reggia. Un incendio fortuito bruciò in tre ore il ponte di legno sul Reno presso Magonza, fatto costruire da Carlo in dieci anni, con ingente fatica e tale magnifico lavoro che sembrava dovesse durare in eterno. Bruciò talmente, che salvo quelle coperte dall’acqua, non fu risparmiata neppure una tavola. Lo stesso Carlo, al tempo dell’ultima sua spedizione in Sassonia, contro Goffredo, il re dei Danesi, era uscito un giorno dall’accampamento prima del levarsi del sole e, mentre si metteva in cammino, vide d’improvviso, nel cielo sereno, staccarsi una fiamma ardente e luminosissima e percorrerlo dalla destra alla sinistra. Mentre tutti, pieni di meraviglia, si domandavano cosa volesse significare questo segno, il cavallo che re Carlo montava abbassò bruscamente la testa, cadde giù, e gettò in terra con tale violenza il sovrano, che a questo si ruppe la fibbia del mantello e si spezzò la cintura della spada. I servi accorsi trovarono Carlo senz’armi e senza mantello: il giavellotto, inoltre, che il re stringeva in pugno, fu proiettato tanto lontano, da venire raccolto a più di venti passi di distanza. Aggiungi a ciò il frequente tremare del palazzo in Aix e i continui scricchiolii dei soffitti di legno nelle camere dove il monarca si tratteneva. Inoltre la basilica, nella quale Carlo doveva poi venire sepolto, fu colpita dal fulmine e la violenza della folgore strappò la palla d’oro dalla cima del tetto e la proiettò sulla casa del vescovo contigua alla basilica.
In quell’edificio poi, nel margine della cornice che divideva, dalla parte interna, gli archi inferiori dai superiori, era un’iscrizione in rosso con il nome del fondatore del tempio. Essa finiva con le parole Karolus Princeps. Orbene, parecchi mesi prima della morte di lui, le lettere della parola Princeps erano cosi sbiadite che a mala pena si potevano leggere. Ma re Carlo o mostrò di non comprendere o disprezzò tutti questi presagi, come se essi non lo riguardassero affatto».
L'ultimo capitolo dell'opera (XXXIII) è infine l'elenco dei lasciti e delle disposizioni testamentarie di Carlo, compresa la divisione del suo importante tesoro. Sugli amati libri di Carlo, Eginardo afferma: «Se si rinvengono o vasi o libri o altri ornamenti che chiaramente risultino non essere stati donati da lui alla predetta cappella, allora sia lecito acquistarli a chi voglia, purché se ne dia un prezzo giusto. Per quel che riguarda i libri, dei quali ha raccolto una gran quantità nella sua biblioteca, ha stabilito che chi li desideri li paghi al loro giusto prezzo, e che il ricavato sia erogato in beneficio dei poveri».
Chiude l'opera l'elenco dei personaggi importanti della corte presenti alla morte del re (arcivescovi, vescovi, abati e conti), e l'affermazione finale che «il figlio di lui, Ludovico, che gli successe per volontà divina, dopo che ebbe letto quest’atto, curò di eseguire, subito dopo la morte di re Carlo, tali disposizioni, con tutta la sua devozione e nel più breve tempo possibile».
Opera agile ed essenziale, la biografia di Eginardo resta tuttavia un documento prezioso sia da un punto di vista storico che letterario, e costituisce uno dei testi più indicativi del Medioevo occidentale.


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