SCIPIO SLATAPER, IL MIO CARSO

 

Scipio Slataper

Nato a Trieste il 14 luglio 1888, Scipio Slataper - italiano per parte di madre, Iginia Sandrinelli; di origini slovene o boeme il padre, Luigi - ebbe vita breve e intensa. Collaboratore de La Voce, divenne in breve uno dei volti più noti della cultura triestina fedele alla causa dell'irredentismo. Politicamente vicino al pensiero liberale, «unica garanzia delle sub-minoranze» d’Europa, allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come volontario nell'Esercito italiano, partendo per il fronte il 2 giugno 1915; ma morirà non molto dopo, sul monte Podgora, il 3 dicembre 1915, all’età di ventisette anni. Alla memoria gli fu assegnata la medaglia d’argento al valor militare.


Pochi giorni prima di morire, così scriveva:


«Mai come nel silenzio della notte, quando la trincea dorme e dieci metri più in là c’è l’agguato del buio e delle fronde, si sente la presenza della guerra. La guerra non è tanto nello scoppio delle granate o nella fucileria, e neanche nell’attacco a corpo a corpo. La guerra non è in ciò che si crede da lontano, la sua realtà tremenda è che da vicino è in fondo una povera cosa che fa pochissima impressione: ma è - come sentì bene il Tolstoj - in quel curioso spazio al di là della propria trincea, silenzioso, placido, col suo grano che matura senza scopo. È quel senso di sicura morte che c’è più in là dove pure c’è il sole e le strade e le case dei contadini».


Tipico prodotto dell’ambiente de La Voce, Il mio Carso è l’unica vera opera narrativa, e in generale la più degna di rilievo dello scrittore triestino. Fedele ai dettami de La Voce, che rifiutava il genere del romanzo a beneficio del cosiddetto "frammentismo", Il mio Carso non è né può definirsi un romanzo: è una scrittura soggettiva, che dà libero corso ai ricordi personali e alle associazioni della coscienza; una prosa ‘frantumata’ - tanto per citare un altro noto prodotto letterario del medesimo ambiente vociano, I frantumi di Boine -, fatta di note e di appunti in margine. Da un punto di vista tecnico la si potrebbe definire facilmente una prosa poetica; di fatto assume la forma del diario: «il nostro genere sarà probabilmente il diario», è affermazione dello stesso Slataper.

Diviso in tre parti, ognuna dedicata a una fase della vita di Slataper: Infanzia - Adolescenza - MaturitàIl mio Carso resta in definitiva una confessione in forma di diario: Slataper rievoca episodi della propria vita, dei propri ricordi familiari, in particolare della giovinezza (al momento della pubblicazione, nel 1912, l’autore ha ventiquattro anni), della descrizione dell’ambiente nel quale è sempre vissuto, fatto di «grandi alberi aperti al vento», inseguendo sogni di «prosperosa libertà»:


«Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e romoreggiavo nella foresta come fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l’anima larga e fresca come la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi d’aizzamento.

E ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la pelle, inzupparmi d’acqua la gola, le narici, gli occhi e m’ingorgavo di sorsate enormi notando sott’acqua a bocca spalancata come un luccio. […]

Il sole sul mio corpo sgocciolante! il caldo sole sulla carne nuda, affondata nell'aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api tutt'oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta nel cielo — fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da un’ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell'arsura agostana, e una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio d'infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli».


Molte pagine del libro sono dedicate al ricordo della giovane Anna Pulitzer, nata nel 1889, con la quale Slataper ebbe una relazione forse prematura, conclusa tragicamente con il suicidio di lei, nel maggio 1910. Ne Il mio Carso il ricordo di Anna, chiamata ora Gioietta, ora semplicemente «alberella di primavera», dà spazio a riflessioni sul senso della morte che però portano lo scrittore, in nome della sua filosofia vitalistica, all'accettazione della vita, nonostante tutte le avversità.


Ma il vero protagonista assoluto dell'opera è, come suggerisce il titolo, "il mio Carso". Descritto nei minimi dettagli a livello topografico, il Carso si carica anche di forti valenze simboliche: nell'aridità e nell'asprezza delle sue rocce, nel suo silenzio, nella sua solitudine, il Carso diventa simbolo della vita, dura e irta di difficoltà. Nei suoi spazi aperti, nella natura e nei paesaggi, nei suoi alberi e nelle sue acque, è simbolo della vita libera, della libertà più piena e più vera, di una vita selvaggia e "barbarica", contrapposta alla cultura accademica e libresca delle città, e di Trieste in particolare. L'adesione di Slataper al "suo" Carso è quindi un'adesione totale di carne e di sangue, un amore sviscerale nei confronti della propria terra, dove è nato e vissuto: "Carso, mia patria, sii benedetto", è una delle ultime frasi del libro. 


Degli scrittori che ruotarono intorno alla Voce, non v’è dubbio che Slataper sia da accostare per vicinanza a Jahier e a Boine, con i quali condivide lo stile di scrittura, reso appunto nella forma della prosa diaristica, e i contenuti, frutto di una elaborata ricostruzione interiore sul filo della memoria. A dividerli resta il tono e, in definitiva, le rispettive visioni del mondo: se Jahier era pervaso da un sincero e schietto spirito religioso, che lo portava a ricercare una redenzione attraverso la sofferenza, quella della guerra soprattutto, attraverso legami quali l’amicizia e lo spirito fra commilitoni - nella fattispecie, gli alpini -; e se Boine era anch'egli tormentato da una coscienza religiosa, ma non priva però di lacerazioni, che lo portava a strappi ai limiti della non piena ortodossia; non così Slataper, che resta invece uno spirito laico, che celebra la vita e la forza vitale, con accenti alla Nietzsche e talvolta dannunziani, anche nel lessico, ricco di voci letterarie e spesso volutamente ricercato, ma che convive con voci popolari del dialetto triestino.


QUI un'antologia de Il mio Carso (con note di commento).

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