FEDERIGO TOZZI, CON GLI OCCHI CHIUSI

 


Con gli occhi chiusi è considerato il capolavoro di Federigo Tozzi. Scritto a partire dal 1909 e terminato nel 1913, ma pubblicato solo nel 1919 dall’editore Treves di Milano, fu il primo vero successo editoriale dello scrittore senese. Romanzo scopertamente autobiografico racconta le vicende di Pietro Rosi, alter ego di Tozzi, lungo due direttrici principali: il rapporto conflittuale del protagonista con il padre, Domenico, gestore di una trattoria nel centro di Siena; e la relazione con una giovane contadina del posto, Ghìsola, che resta la vicenda portante del libro, al punto che nei progetti dell’autore il titolo originario del romanzo doveva essere proprio Ghìsola.


Pietro Rosi è un giovane dal carattere puro e sensibile che vive a Siena insieme al padre Domenico, burbero, autoritario e violento, che gestisce una trattoria nel centro della città, Il pesce azzurro; la madre Anna, affetta da frequenti crisi epilettiche, ha invece un attaccamento morboso nei confronti di Pietro, che cerca di proteggere dalle ire del marito, che considera il figlio un inetto e un buono a nulla. Domenico possiede un podere, Poggio a’ Meli, posto poco fuori Siena, dove lui e la famiglia trascorrono lunghi periodi dell’anno per seguire i lavori dei raccolti, affidati a un gruppo di salariati. Fra questi ultimi c’è Ghìsola, figlia di contadini, dal carattere diametralmente opposto a quello di Pietro, essendo una ragazza molto concreta, furba e maliziosa. Fra i due giovani nasce una reciproca attrazione che vede Pietro sempre timido e impacciato, incapace anche solo di parlarle o dichiararsi. La madre di Pietro, colpita da un violento attacco epilettico, muore; mentre Ghìsola è allontanata dal podere per l’intervento di Domenico, che non vede di buon occhio la relazione della ragazza con il figlio, per il quale nutre ben altre ambizioni. Pietro inizia gli studi, prima a Siena e poi a Firenze, ma con esiti disastrosi; di nascosto dal padre, riannoda la relazione con Ghìsola, che ama di un amore puro e disinteressato, nonostante comincino a diffondersi sempre più spesso delle dicerie sul conto della ragazza riguardo ai suoi numerosi amanti, nell’indifferenza di Pietro che persiste nel suo tenere “gli occhi chiusi” di fronte alla realtà e nel credere nell’amore ricambiato della donna. Dopo aver conosciuto un uomo, il signor Alberto, Ghìsola resta incinta, ma d’accordo con l’amante, cerca di sedurre Pietro, nel tentativo di attribuire a lui la paternità. Ma dopo i rifiuti di Pietro, che non vuole avere rapporti con la donna prima del matrimonio, Ghìsola finisce per prostituirsi in una casa chiusa di Firenze, finché giunge una lettera anonima che avverte Pietro del tradimento di Ghìsola e della sua presenza a Firenze: lui si reca sul posto e finisce per trovarsi in un bordello, dove trova lei, incinta. Di fronte alla scena inequivocabile, finalmente a Pietro si aprono gli occhi: dopo una vertigine iniziale, si riscuote e capisce di non amare più Ghìsola.


Tolti i nomi dei personaggi (e quello della trattoria), la vicenda raccontata da Tozzi è chiaramente il racconto della sua vita, compresa la figura di Ghìsola che corrisponde nella biografia tozziana a tale Isola, effettivamente conosciuta dall’autore nel podere del padre.


Nel libro il padre di Domenico, nell’animo «restato contadino» è un padre-padrone dal carattere rude e violento, con una spiccata tendenza all’avarizia: la sua ossessione per il guadagno e il denaro traspaiono fin dalla prima scena del romanzo, dove l’uomo è ritratto nel chiuso della sua trattoria, intento a contare l’incasso della giornata al lume di una fievole candela che teme di consumare. Nei confronti dei libri e della cultura in generale ha un’avversione feroce, considerandoli «stupidaggini piacevoli per gli sfaccendati, che avevano soldi da buttar via»; di scuole e di studi non ne vuol sentire parlare, e al figlio ripete: «non hai bisogno di studiare. Basta che tu sappia fare la moltiplicazione. Dovrebbero esser abolite le scuole, e mandati tutti gli insegnanti a vangare. La terra è la migliore cosa che Dio ci ha data», e ancora: «Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia! Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito».

Nei confronti di Pietro, che mostra a un certo punto quelle che per Domenico non sono altro che “velleità artistiche”, la molla del conflitto è pronta a scattare. Ma è soprattutto per il carattere del ragazzo che Domenico prova disprezzo: timido, impacciato, sempre con la testa fra le nuvole, perso nelle sue fantasie e nel mondo dell’immaginazione, per niente concreto, incapace di lavorare o di combinare qualcosa nella vita, è l’esatto opposto del padre, che da lui avrebbe preteso se non altro che avesse portato avanti l’attività di famiglia, ossia la trattoria. Quando l’uomo arriverà progressivamente a rendersi conto che dal figlio non potrà aspettarsi mai niente, che si disinteressa del ristorante come di qualsiasi altra attività lavorativa, Domenico bollerà definitivamente suo figlio semplicemente come «un peso», «inutile agli interessi» e «come un idiota qualunque». 

Il rapporto fra i due non può quindi risolversi che nella chiusura totale, fino ad ignorarsi completamente e a non parlarsi più: «gli pareva impossibile che un figliolo facesse così! E dire che aveva avuto intenzione perfino di mettergli il suo nome, tanto doveva assomigliargli, appartenergli! […] Ad un tratto, come un'insinuazione a tradimento, capì che anche egli era come un'altra persona qualunque. E, allora, sarebbe stato meglio che non gli fosse nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più», passo dove tra l’altro - nell’allusione allo stesso nome portato dal padre e dal figlio -, Tozzi confonde volutamente Pietro con se stesso (il padre di Tozzi si chiamava anch’egli Federigo, detto Ghigo).


La figura di Ghìsola è nei confronti di Pietro come un’immagine rovesciata in uno specchio: ella è difatti il suo esatto opposto, e rappresenta tutto ciò che Pietro non è. Pietro è l’uomo di intelletto, perso nelle sue elucubrazioni mentali che si risolvono nell’astrazione pura e nel dominio dell’immaginazione sul reale, al punto da renderlo del tutto incapace di vivere una vita che non sia di riflessione e di inazione (nei momenti decisivi Pietro si immobilizza o tace ostinatamente o al massimo sviene); Ghìsola, che non sa né leggere né scrivere, al contrario è essenzialmente corporeità e sensualità, e ogni suo gesto parla il linguaggio dell’azione, dell’istinto animale e della concretezza. Il rapporto fra i due non può quindi concretizzarsi che su un piano asimettrico: a un primo livello, sul piano dell’incomunicabilità reciproca, essendo talmente diversi da risultare incomprensibili l’uno all’altro; a un secondo livello, il piano si inclina a favore della donna che assume nei confronti dell’uomo i toni canzonatori della beffa e degli inganni, che Pietro, con gli occhi ostinatamente chiusi al mondo esterno in quanto reclinati sulla propria dimensione interiore, non riesce a cogliere in quanto tali. Da questo punto di vista la storia narrata nel romanzo si può ridurre al rapporto fra il beffeggiato e il beffeggiatore, che occupa quasi tutta l’estensione del racconto fino al momento finale, alla rivelazione che rovescia le parti, facendo sì che Ghìsola - per la prima volta messa alle strette dall’evidenza dei fatti - si senta come «un topo mezzo schiacciato dal colpo avuto».


Pietro rappresenta in definitiva “l’inetto” che preferisce vivere come un sonnambulo con gli occhi chiusi al mondo, incapace di uscire da se stesso per aprirsi al mondo esterno, che confondendo mondo interiore e realtà esterna non riesce più a dipanare la matassa e finisce per perdere il contatto con la realtà che lo circonda e “chiude gli occhi” di fronte ad essa: «era come se Pietro non vedesse e non udisse niente». Per aprire gli occhi di Pietro serve uno shock, un evento traumatico quale è nel finale del romanzo il trovarsi di fronte a Ghìsola in un bordello e incinta, un fatto questo che con la forza dell’evidenza letteralmente costringe Pietro ad aprire i suoi occhi, fino a quel momento ostinatamente chiusi. Il finale del romanzo, con una sorta di «epifania» di Pietro, che consiste nella rivelazione ai suoi occhi della realtà esterna ben diversa da quella frutto della sua immaginazione, è un finale interlocutorio e possibilista nei confronti di un eventuale riscatto da parte del protagonista, che infatti si rialza con una coscienza nuova: «quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghìsola, egli non l’amava più».


Fondamentale nella scrittura tozziana rimane lo scavo psicologico focalizzato anche alla comprensione dei gesti minimi e apparentemente banali dei suoi personaggi: i «misteriosi atti nostri», secondo la definizione dello stesso Tozzi. Il quadro si allarga poi, dalla dimensione interiore e soggettiva, a quella dei rapporti interpersonali: dal conflitto padre-figlio al rapporto patologico con il sesso delineato nella relazione fra Pietro e Ghìsola, tutti elementi che ricollegano Tozzi, se non direttamente alla psicanalisi freudiana, quantomeno agli studi di psicologia cui Tozzi si interessò precocemente e da autodidatta nelle letture presso la Biblioteca Comunale di Siena.


Caratteristica precipua del romanzo, rispetto alla produzione successiva di Tozzi, è infine un accentuato lirismo, soprattutto nelle descrizioni della natura e del paesaggio toscano (i sentieri polverosi di campagna, i piccoli borghi, i cipressi sullo sfondo) e per l’attenzione minuta ai lavori dei campi e al mondo del contado, che hanno fatto accostare la scrittura tozziana, anche per la spiccata vocazione regionalistica, alla pittura dei Macchiaioli.


qui un'antologia di Con gli occhi chiusi con commento

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