I. N. Tolstoj, La tempesta di neve

Ivan Kostantinovic Ajvazovskij, Scena di inverno nella piccola Russia (1868)

Il racconto "La tempesta di neve", conosciuto in italiano anche con il nome "La tormenta", è un racconto di Tolstoj, pubblicato per la prima volta in rivista nel 1856. Il racconto nasce da un'esperienza autobiografica dell'autore che, una notte dell'inverno 1854 (precisamente il 24 gennaio), dovette affrontare una violenta bufera di neve per rientrare dal Caucaso nella sua tenuta di Jasnaja Poljana.

Il racconto è diviso in undici brevi capitoletti ed è un piccolo capolavoro di narrativa descrittiva: l'azione di per sé è infatti pressoché inesistente, e il fluido del racconto scorre lentamente, fra descrizioni del paesaggio, degli uomini e dei pensieri del narratore. 

Altrettanto scarna e ridotta ai minimi termini è di conseguenza la trama: il narratore - anonimo e che si esprime in prima persona - racconta di trovarsi in slitta presso la stazione di posta di Novocerkàsk, in Caucaso, in compagnia del servo Alioscka: nonostante gli avvertimenti dell'oste della locanda in cui si trova che li sconsiglia di mettersi in viaggio a quell'ora, si avviano di sera alla volta di una stazione di posta nei pressi di Tula, quando vengono sorpresi dalla bufera; dopo due-tre tentativi di procedere comunque e dei relativi dietro-front alla volta della locanda di partenza, causati soprattutto dall'evidente imperizia del cocchiere incapace di tenere la strada, il gruppo decide alla fine di unirsi a delle vetture di posta che facendo la spola quotidianamente in quel tratto di territorio, mostravano una maggiore sicurezza e affidabilità nel compiere il tragitto. Ma l'intera carovana finirà per perdersi nella tormenta, nel freddo e sotto i fiocchi continui della neve che trasformerà il paesaggio in una distesa piatta e uniforme, senza più punti di riferimento o segni di strade. Il gruppo vagherà così tutta la notte, senza tuttavia un grande pericolo o momenti particolarmente drammatici: fra il sonno del narratore, perso in dormiveglia in sogni che lo riportano all'infanzia, le chiacchiere dei conducenti a cassetta, presi a fumare o a raccontarsi storie per passare il tempo, o qualche cavallo che si ferisce la zampa o mostra di non voler più procedere oltre. L'indomani mattina, allo spuntare del sole, la carovana arriverà finalmente alla meta agognata, e il narratore si ritroverà nei pressi di una locanda a pagare dell'acquavite ai conducenti che lo hanno condotto sano e salvo. 

Il lettore che si aspetta una trama avvincente, colpi di scena o situazioni di particolare tensione, non potrà pertanto che rimanere deluso: la vicenda è lineare, la trama si evolve lentamente ma in maniera prevedibile e scontata verso lo scioglimento finale, senza scatti o eventi traumatici; il protagonista stesso è calmo, sonnecchia placidamente durante tutto il tragitto, sognando o ascoltando nel dormiveglia le chiacchiere dei conducenti. 

Ma la grandezza e la bravura di Tolstoj, che qui mostra tutta la sua perizia di narratore, è proprio in questa sua capacità di tenere avvinto il lettore per pagine e pagine senza dover ricorrere a colpi di teatro o a situazioni al limite per innalzare il livello della tensione: le pagine scorrono mirabilmente nelle descrizioni del paesaggio innevato, o in quelle dei sogni del protagonista, o infine nelle brevi battute che tratteggiano le figure dei conducenti.

Ecco per esempio la descrizione dell'infuriare della bufera (capitolo IV):

"La tormenta si faceva sempre più forte e più forte, e dall'alto la neve cadeva, asciutta e minuta; a quel che pareva, c'era un principio di gelo: il naso e le guance gelavano di più, più spesso correva sotto la pelliccia un filo d'aria fredda, e bisognava avvolgersi meglio. Di quando in quando, di rado, la slitta urtava contro un sasso nudo, ghiacciato, da cui il vento aveva spazzato la neve. Siccome io, senza far la notte, avevo già percorso molta strada, benché mi interessasse molto quel nostro vagabondare, involontariamente chiudevo gli occhi e sonnecchiavo. Una volta, aprendo gli occhi, rimasi sorpreso, come mi parve nel primo minuto, da una luce chiara che illuminava la pianura bianca; l'orizzonte si era notevolmente allargato, il cielo nero e basso ad un tratto era scomparso, da ogni parte si vedevano le righe bianche diagonali della neve che cadeva. [...] Allora, appena eravamo fermi, si faceva sentire sempre di più l'ululato del vento, e più visibile era la quantità enorme, sorprendente, della neve che volava nell'aria. Potevo vedere come, al chiarore della luna velata dalla tormenta, la figura poco alta del conducente, con una frusta in mano, di cui si serviva per tastare la neve davanti a sé, si muoveva avanti e indietro nella chiara nebbia, di nuovo si avvicinava alla slitta, saltava di traverso in cassetta, e s'udivano, in mezzo al monotono sibilare del vento, un abile e sonoro incitamento e il tintinnio delle campanelle".

E poco dopo (capitolo V):

"Per lungo tempo dopo andiamo senza fermarci, nella solitudine bianca, nel chiarore freddo, diafano e ondulante della tormenta. Quando apro gli occhi, vedo sempre lo stesso berretto angoloso e la schiena coperta di neve che si drizza davanti a me, quella stessa dugà poco alta, sotto la quale, fra le briglie tese, di cuoio, si dondola, sempre alla stessa distanza, la testa del cavallo di stanga con la criniera nera, sospinta dal vento a uguali intervalli nella stessa direzione; da dietro la schiena, si vede quello stesso cavallo di rinforzo, baio, a destra, con la coda brevemente legata, e il bilancino che di tratto in tratto urta contro la slitta. Se guardi in basso, vedi sempre la stessa neve friabile, tagliata dagli strisci, che il vento ostinatamente solleva e porta via sempre nella stessa direzione. Davanti, alla medesima distanza, corrono via le slitte che ci precedono; a dritta, a manca, tutto biancheggia e brilla. L'occhio cerca invano un oggetto nuovo: né un palo, né un pagliaio, né uno steccato: non si vede nulla. Ovunque tutto è bianco, bianco e mobile: ora l'orizzonte sembra illimitatamente lontano, ora chiuso a due passi in ogni direzione, ora ad un tratto una parete bianca e alta si eleva a destra e corre di fianco alla slitta, ora ad un tratto scompare e si eleva davanti a noi per correr via sempre più lontano e di nuovo sparire. Se guardi in alto, credi veder chiaro in un primo momento; credi, attraverso la nebbia, di vedere le stelle; ma le stelle fuggono via dalla vista sempre più in alto, e non vedi che la neve, che, rasente agli occhi, cade sulla faccia e sul bavero della pelliccia; il cielo è dappertutto ugualmente chiaro, ugualmente bianco, incolore, uniforme e continuamente mobile. Il vento pare mutarsi: ora soffia incontro e ti copre gli occhi di neve, ora da un lato, dispettosamente, rovescia il bavero della pelliccia sulla testa e beffardamente lo sbatte sulla faccia, ora da dietro ronza in non so quale fessura. Si ode il debole, incessante fruscio degli zoccoli e delle strisce nella neve, e il tintinnio smorzantesi delle campanelle, quando noi viaggiamo sulla neve profonda. Solo di tanto in tanto, quando si va contro vento e su dei sassi nudi, gelati, giungono chiaramente all'orecchio l'energico fischiettare di Ighnat e il trillante suono della campanella con la quinta incrinata che fa eco, e questi suoni rompono ad un tratto, piacevolmente, l'aspetto triste della solitudine, e poi di nuovo suonano uniformi, ripetendo sempre, con una intollerabile esattezza, quel medesimo motivo che involontariamente io m'immagino".

Nel freddo della tormenta, il protagonista del racconto si addormenta e sogna la sua infanzia, rievocando per contrasto con il gelo pungente i ricordi di una calda giornata di luglio (Capitolo VI):

"Ma ecco, è un mezzogiorno di luglio. Attraverso l'erba del giardino appena tagliata, sotto i raggi cocenti e diritti del sole io vado non so dove: sono ancora molto giovane, sento che qualche cosa mi manca, e desidero non so che cosa. Me ne vado verso lo stagno, al mio luogo preferito, fra un'aiuola di rose selvatiche e un viale ai betulle, e mi distendo per dormire. Ricordo la sensazione con la quale, stando disteso, guardavo attraverso gli steli rossi e pungenti d'un cespuglio di rose, guardavo la terra nera, disseccata in granelli, e lo specchio dello stagno trasparente, vividamente azzurro. Era una sensazione vaga, di ingenua soddisfazione di sé e di tristezza. Tutto intorno era cosi bello, e quella bellezza agiva così fortemente sul mio animo che mi pareva d'essere bello io stesso, e la sola cosa che mi indispettiva era che nessuno si meravigliasse di me. Fa caldo, cerco di prender sonno per consolarmi; ma le mosche, le insopportabili mosche, non mi lasciano in pace neppure qui, cominciano a raccogliersi intorno a me e con ostinazione, in certo modo elasticamente, come noccioli di ciliegia, sbalzano dalla mia fronte sulle mani. Un'ape ronza poco distante, proprio là dove la terra scotta fortemente per il sole; delle farfalle dalle ali giallicce, come intorpidite, svolazzano da un filo d'erba ad un altro. Guardo in alto: gli occhi mi fanno male - il sole risplende troppo vivamente attraverso il chiaro fogliame d'una betulla ricciuta, che in alto in alto, pian piano, oscilla al di sopra di me con i suoi rami, e sembra che faccia ancora più caldo. Mi copro il viso con il fazzoletto: l'aria si fa afosa, e le mosche sembrano appiccicarsi alle mani, che a poco a poco si inumidiscono di sudore. Nel cespuglio di rose si muovono dei passeri, proprio nel folto. Uno di essi è saltato sulla terra a meno di un metro da me, ha finto per un paio di volte di beccare energicamente la terra, e facendo scricchiolare i rami e dopo un allegro cinguettio, è volato via dall'aiuola; un altro pure è sbalzato sulla terra, ha scosso la piccola coda, si è guardato intorno, e anche lui, come una freccia, con un cinguettio, è volato via dietro al primo. sulla sponda dello stagno si odono i colpi d'una mestola sulla biancheria bagnata, e quei colpi risuonano e si diffondono, sembra, per il basso, lungo lo stagno. Si odono risate e suoni di voci, e uno sguazzare nell'acqua di persone che si bagnano. Un colpo di vento ha cominciato a stormire con le cime delle betulle ancora lontano; ecco più da vicino, odo, ha mosso l'erba, ed ecco le foglie dell'aiuola di rose selvatiche hanno cominciato a oscillare, ad agitarsi sui loro rami; ed ecco, sollevando un angolo del fazzoletto e solleticando la mia faccia sudata, un filo d'aria fresca è giunto sino a me. Nell'apertura del fazzoletto alzato è entrata una mosca e si dibatte atterrita intorno alla mia bocca umida. Un certo ramo secco mi preme sotto la schiena. No, non potrò starmene sdraiato: andrò a bagnarmi".

Fra le descrizioni del paesaggio nevoso e dei sogni del narratore, la notte trascorre e si giunge finalmente all'alba, al raggiungimento dell'agognata salvezza (Capitolo X):

"Mi addormentai profondamente. Quando poi Alioscka, urtandomi con un piede, mi risvegliò e io aprii gli occhi, era già mattina. Pareva che facesse ancor più freddo che durante la notte. Dall'alto non cadeva la neve, ma un vento forte e asciutto continuava a soffiar via la polvere di neve nei campi e soprattutto da sotto gli zoccoli dei cavalli e da sotto gli strisci. Il cielo a destra, all'oriente, era pesante, d'un colore turchino cupo; ma strisce oblique d'un rosso arancione, vivide, vi si disegnavano sempre più chiaramente. Sul nostro capo appariva, al di là delle nuvole fuggiasche e bianche che appena appena prendevano colore, un pallido azzurro; a sinistra le nubi erano chiare, leggere e mobili. Dappertutto intorno, fin dove l'occhio poteva giungere, posava sui campi una neve bianca, distesa in strati dai contorni aguzzi, profonda. Qua e là si scorgeva un monticello tendente al grigio, sopra al quale ostinatamente volava una polvere di neve minuta, asciutta. Non si vedeva intorno alcuna traccia, né di slitta, né di uomo, né di bestia. I contorni e i colori della schiena del conducente e dei cavalli spiccavano chiaramente e perfino bruscamente sullo sfondo bianco... [...] Ma ecco, appare una casetta con un'insegna, solitaria, vicino alla strada, in mezzo alla neve che l'ha ricoperta quasi fino al tetto e alle finestre. Accanto alla taverna è fermo un tiro a tre di cavalli grigi, con il pelo arricciato dal sudore, con le zampe allargate e le teste basse. Vicino alla porta il terreno è spazzato, e sta infissa una pala; ma il vento che romba getta pur sempre dal tetto e fa mulinare la neve. Al suono delle nostre campanelle esce dalla porta un conducente corpulento, rosso in faccia, di pelo rossiccio, con un bicchiere d'acquavite in mano, e grida qualche cosa. Ighnàscka si volta verso di me e domanda il permesso di fermare. Allora per la prima volta vedo il suo muso".

Il racconto di Tolstoj, nonostante la povertà dell'azione narrativa - o forse proprio per questo - resta accattivante dalla prima all'ultima riga, e grazie alle sue descrizioni dettagliate e all'atmosfera evocata dalle pagine, riesce a proiettare il lettore nell'atmosfera quasi magica e fiabesca di un paesaggio invernale della piccola Russia.

Il racconto è stato recentemente ristampato in italiano e lo si può leggere oggi agevolmente nella traduzione curata da Annalisa Iezzi: L. N. Tolstoj, La tempesta di neve e altri racconti, Rea Multimedia Edizioni 2014, pp. 202 [la raccolta comprende anche i racconti Albert e La felicità familiare]; altra edizione precedente: L. N. Tolstoj, La tormenta e altri racconti, Mondadori Oscar Classici 1996 (a cura di Igor Sibaldi).

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