L'Inno "Horis peractis undecim" (XI secolo?)

Corale latino con notazione musicale (XII secolo)

L'inno latino Horis peractis undecim ("Trascorsa l'ora undicesima") è un inno anonimo di incerta datazione, ma databile al massimo al secolo XI. E' inserito nel Breviario mozarabico, fra gli inni gotici (si intenda "visigotici") dell'antico rito spagnolo della liturgia cattolica. L'inno è costituito da tre strofe di versi di otto sillabe (ottonari) sdruccioli, ossia che finiscono con un dattilo finale (– ᴗ ᴗ), ed è inserito nella Liturgie delle ore al Vespro del venerdì della seconda settimana.
Il motivo ispiratore dell'inno è la parabola dei lavoratori della vigna (Matteo 20, 1-16), dove si racconta di un padrone che recluta operai per la sua vigna, e al termine del giorno, con la fine della giornata lavorativa, chiama a sé gli operai per dare loro il salario pattuito, elargendolo con amore e infinita misericordia. Allo stesso modo nell'inno si ringrazia il Signore per l'arrivo della sera e, al termine delle fatiche del giorno, si richiede il suo aiuto insieme alla mercede promessa (nelle sue molteplici accezioni simboliche).
Il testo di riferimento è quello dell'edizione di J. C. Sànchez, Hymnodia Hispanica, Turnhout, Brepols 2010 (Corpus Christianorum. Series Latina 167), pp. 256, 814; ma presenta qua e là delle varianti, attestate principalmente nell'edizione degli Analecta Hymnica Medii Aevi, vol. 27 (Inni gotici: gli inni mozarabici dell'antico rito spagnolo), p. 106, segnalate al lato fra parentesi quadre.

Horis peractis undecim,
ruit dies in vesperum;
solvamus omnes debitum
mentis libenter canticum.                   [libenter: al. benignae]

Labor diurnus transiit
quo, Christe, nos conduxeras;
da iam colonis vineae
promissa dona gloriae.                      [gloriae: al. gratiae]

Mercede quoque advocas,                 [mercede: al. mercedem]
quos ad futurum muneras,
nos in labore adiuva
et post laborem recrea.

["Trascorsa l'ora undicesima,
il giorno declina nella sera;
eleviamo tutti volentieri
con il cuore il canto dovuto.

Il lavoro del giorno cessa
dove tu, o Cristo, ci avevi condotti;
dà ormai ai lavoratori della vigna
i doni promessi della gloria.

Tu chiami anche per la mercede
quelli che un giorno ricompensi;
assistici nella fatica,
e dopo la fatica dacci ristoro"]

Nella prima strofa si descrive l'atmosfera del giorno che declina nel tramonto, e si invitano tutti ad elevare con il cuore il canto di ringraziamento dovuto al Signore per aver concluso felicemente la giornata.
Trascorsa l'ora undicesima: nel Medioevo la scansione delle ore della giornata segue il ritmo delle ore secondo il calendario liturgico. La prima ora, le lodi, è alle 6 del mattino; l'undicesima ora corrisponde quindi alle cinque del pomeriggio, quando il sole ormai volge al declino, e il giorno cede il passo alla sera. Il riferimento all'ora undicesima deriva dalla parabola evangelica, dove la conclusione dei lavori nella vigna e il pagamento da parte del padrone avviene appunto alle cinque del pomeriggio.
Il giorno declina nella sera: il verbo ruit significa letteralmente 'correre', 'precipitarsi': il giorno quindi si affretta, precipitando, verso la sera. Vesperum si può tradurre tanto come 'sera', in senso generico; quanto - letteralmente - come 'vespro', l'ora liturgica che con il suono della campana annunciava la fine del giorno, e invitava i monaci, e i fedeli tutti, alla preghiera serale. In quest'ultimo caso avremmo forse una prova di come l'inno possa essere stato concepito in ambiente monastico. 
Leviamo tutti volentieri: il verbo solvamus vuol dire 'sciogliere', cioè 'sciogliere il canto con la bocca', ed è quasi un verbo tecnico, presente in tutti gli inni più antichi, compresi quelli di S. Ambrogio. Libenter: l'avverbio ('volentieri', 'spontaneamente', ma anche, in senso più esteso, 'con gioia'), è un invito a elevare il canto di ringraziamento al Signore dal profondo del cuore, di propria volontà, e contrasta con il vicino debitum, 'dovuto': il ringraziamento a Dio a fine giornata è dovuto, perché a Lui solo si deve la lode per quanto ricevuto; ma d'altro canto non può che essere spontaneo, lode sincera della creatura al suo Creatore. Altri manoscritti sostituiscono libenter con benignae, da accordare a mentis: 'eleviamo il canto dovuto... con la mente (o il cuore) benevolo, ben disposto'.
Il canto dovuto del cuore: il canto (canticum) è il termine tecnico che identifica l'inno liturgico: parole accompagnate dalla musica, musica che si eleva al cielo da un concento di voci all'unisono, per lodare insieme il sommo Creatore. Mentis: ha un senso più largo di 'mente', ed indica il 'cuore', 'l'anima': il canto di lode a Dio deve venire cioè dalla mente e del cuore, come indica giustamente il precetto: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Matteo 22, 37).

Nella seconda strofa si ringrazia Cristo, che ci ha condotti a lavorare nella sua vigna, e si chiede il compenso pattuito per i lavoratori della vigna, la mercede promessa per il giorno della sua gloria.
Il lavoro del giorno cessa: Labor è il lavoro, ma più propriamente la 'fatica'; transiit: 'trascorre', 'passa', sottolinea l'idea della transitorietà e del passaggio: il lavoro del giorno, per quanto faticoso, terminerà nella pace e nel riposo della sera. I due termini, labor e transiit, si corrispondono e si richiamano perfettamente, con un gioco allusivo chiaramente voluto e ricercato: labor è infatti anche un verbo, e indica lo scorrere delle acque.
Dove tu, o Cristo, ci avevi condotti: quo 'dove' (avverbio di moto a luogo), ossia nella vigna, dove il Cristo aveva condotto (conduxeras) gli operai a lavorare. La vigna, allegoricamente, indica il mondo, la vita terrena dove gli operai hanno prestato la loro opera e hanno concluso il loro lavoro.
Dà ormai ai lavoratori della vigna: iam 'ormai', 'a questo punto', cioè alla sera, al termine dei lavori di giornata nella vigna. Se la vigna rappresenta il mondo, dove gli operai hanno lavorato durante il giorno, la sera rappresenta evidentemente la morte, o il giorno del giudizio, quando ognuno riceverà secondo quanto ha seminato (cfr. 1 Corinzi 3, 13-15).
I doni promessi della gloria: il dono promesso è chiaramente la vita eterna, il premio finale per tutte le fatiche e i travagli sopportati sulla terra. Gloriae: la gloria celeste, la mèta da raggiungere per i lavoratori stanchi. La variante gratiae ('i doni della grazia') sembra una sottigliezza teologica, a sottolineare come il dono della salvezza finale si possa raggiungere soltanto mediante la grazia divina.

"Tu, Signore, che chiami per dare la mercede a quelli a cui darai la ricompensa nel giorno del giudizio, assistici nella fatica, e dopo il sudore della fatica dacci un po' di ristoro".
Tu chiami anche per la mercede: mercede è sinonimo di dona: la mercede finale è il dono della salvezza.
Quelli che ricompensi un giorno: la mercede finale andrà a tutti coloro che avranno la ricompensa nel giorno finale, di là da venire (ad futurum), quando ognuno sarà giudicato secondo le sue opere. Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra (Matteo 25, 31-33).
Assistici nella fatica: l'invocazione finale al Signore è quella di essere aiutati (nos... adiuta) nella fatica della vita (in labore).
E dopo la fatica dacci ristoro: e dopo la fatica della vita, con i suoi dolori e le sue sofferenze, che noi si possa avere un po' di riposo, per poter rifiatare e ristorarci da essa. Recrea: come l'italiano odierno 'ricreazione', il momento della morte e dell'incontro con il Signore sarà come una ricreazione, una pausa dopo le sofferenze, un momento di tregua, un sollievo alle fatiche e ai travagli della vita.

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