Un Canavacciuolo nella Roma imperiale: Apicio


Gli antichi Romani, si sa, erano - parafrasando la celebre canzone - una società di magnaccioni; e il re dei magnaccioni a Roma aveva un nome e un cognome: Marco Gavio Apicio.
Apicio fu senza dubbio alcuno il più grande e il più famoso cuoco dell'antica Roma: visse fra l'età di Augusto (era molto amico del celebre Mecenate, e cenò con lui in qualche occasione), e quella di Tiberio, epoca in cui divenne una vera e propria star, conteso e richiesto da tutta l'aristocrazia romana, fino a diventare il cuoco ufficiale dell'imperatore. 
Viveva nel lusso sfrenato, spendendo e spandendo a destra e a manca; preparava cibi raffinati e pranzi sontuosi, destando l'ammirazione (e l'invidia) di tutta Roma. Per stupire e divertire gli annoiati patrizi romani e i nuovi ricchi, creava ricette originalissime, accostamenti stravaganti, piatti esotici, intingoli e salse sofisticati. Era un maestro dell'impiattare, e riusciva a presentare il piatto sempre in maniera scenografica e sfarzosa. Si favoleggiava di lui (e si sa, vox populi vox Dei) che nutrisse le murene con la carne degli schiavi, o che desse del mosto dolce o dei fichi secchi ai suoi maiali e alle sue oche per ingrassarne un fegato, risultando in tal modo l'inventore del foie gras. Il tutto insomma lo rendeva "il più grande scialacquatore di tutti i tempi" (parola di Plinio il Vecchio, che la sapeva lunga). 
Di lui ci resta un libro, il De re coquinaria (ossia "Della cucina"), preziosissimo perché, al di là delle sue creazioni culinarie, è l'unico di ricette dell'antica Roma giunto fino a noi integralmente, e grazie al quale possiamo farci un'idea precisa di cosa mangiavano a tavola i (ricchi) romani, oltre a metterci in condizione di riprodurre quelle antiche ricette (se qualcuno ne avesse il coraggio). 
Il volume è diviso in 10 libri, per un totale di poco meno di 500 ricette, molte delle quali però un po' lontane, diciamo così, dal gusto moderno... qualche esempio? Calli di dromedario (magari ottimi!), creste di volatili vivi, pasticci di lingue di pappagalli parlatori. E poi carne di struzzo, di fenicottero, pavone e gru, pappagalli lessi, lingue di usignoli (che notoriamente cantano bene usando la lingua). 

Ma non poteva certamente mancare, in un piatto romano che si rispetti, il garum, la tipica salsa romana usata come condimento un po' dovunque, diciamo - per intenderci - a livello del ketchup o della maionese al McDonald's. Apicio non dà direttamente la ricetta del garum (il piatto era troppo noto e lo si dava per scontato), ma più o meno era questa: prendete un pesce, sventratelo e privatelo delle interiora (che non butterete!), tagliate il pesce a pezzettini minuscoli, mischiate a poltiglia i pezzettini con le interiora in questione, aggiungere sale a volontà, una spruzzata di spezie qua e là, un po' d'olio, e lasciate macerare il tutto per un periodo di tempo che va da qualche settimana fino a qualche mese, in modo da ottenere una sorta di colatura appiccicosa da spalmare a piacimento o da gustare a merenda... Buon appetito!
Purtroppo Apicio subì la stessa sorte di tante star di oggi, e a un certo punto fu travolto dal suo stesso successo e dalla eccessiva celebrità: si ritrovò pieno di debiti, o, secondo altri, si scoprì solo non abbastanza ricco da poter continuare il tenore di vita a cui era ormai abituato, e per sfuggire ai debitori e alla vergogna, preferì - come tanti romani del tempo - la via del suicidio. Ingurgitò così del veleno. 
Il poeta satirico Marziale (Epigrammi, libro III, 22) non ebbe scrupoli a fare dell'ironia sulla morte del cuoco di Roma, giocando sul termine "bere" il veleno e sulla sua fama di ghiottone:

O Apicio, avevi già profuso per la tua pancia
due volte trecentomila sesterzi;
ma te ne rimanevano ancora dieci milioni e più.
Tu, preoccupato tuttavia da ciò,
per paura di soffrire la fame e la sete,
tracannasti come ultima bibita il veleno.
Non eri stato mai, o Apicio, così ghiotto.

qui il post su Facebook (Gruppo Amanti della Storia romana)

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