Gli intellettuali nel Medioevo
Un maestro legge ai suoi scolari (miniatura del XIV secolo, Castres, Biblioteca Municipale) |
Ritengo che uno dei più bei libri di Jacques Le Goff sia Gli intellettuali nel Medioevo (Les intellectuels au Moyen Age, Paris, Editions du Seuil 1957, trad. it. Milano, Mondadori 1959, ma cito dalla 22a ristampa, ibidem, 2005). La figura dell'intellettuale, definita dallo storico come "coloro che fanno il mestiere di pensatore e di trasmettere il proprio pensiero mediante l'insegnamento" (p. 3), è seguita nel suo sviluppo nei secoli XII e XIII, fino al declino del Medioevo con il passaggio -fra XIV e XV secolo- dall'intellettuale medievale all'umanista.
Monaci nello scriptorium (miniatura da un manoscritto dell'XI secolo) |
Nel XII secolo, invece, l'intellettuale si percepisce "moderno", non in lotta con gli Antichi, ma nutrito di essi per salire più in alto, secondo la notissima immagine di Bernardo di Chartres: "Siamo nani arrampicati su spalle di giganti. Così vediamo di più e più lontano di loro, non già perché la nostra vista sia più acuta o la statura più alta, ma perché ci sollevano nell'aria con tutta la loro altezza gigantesca".
Fondamentale in questa rinascita del XII secolo fu l'apporto greco-arabo, attraverso contatti con le corti arabe di Spagna e di Sicilia. Essenziali furono quindi i traduttori, veri e propri "pionieri di questa rinascita". Come ad esempio Pietro il Venerabile, abate di Cluny, che nel 1141 mette insieme un gruppo traduttori dall'arabo (Roberto di Chester, Ermanno il Dalmata, Pietro di Toledo, affiancati dal saraceno Mohammed), con lo scopo di tradurre il Corano: "Pietro il Venerabile concepì per primo l'idea di combattere i musulmani non sul terreno militare ma su quello intellettuale. Per confutare la loro dottrina, occorre conoscerla; questa riflessione, che a noi sembra ingenuamente evidente, era audace in quei tempi di Crociate" (p. 18). Per dirla con le parole dello stesso Pietro: "Sia che si attribuisca all'errore maomettano il nome vergognoso di eresia, o quello, infame, di paganesimo, bisogna agire contro di esso, il che significa: scrivere".
Il centro della rinascita intellettuale del XII secolo è la città di Parigi, vista -a seconda se progressisti o legati al passato delle silenziose abbazie- come incarnazione in terra della Gerusalemme celeste o della Babilonia infernale. Questi ultimi oppongono alla ùbris del sapere una sorta di "santa ignoranza", ed hanno il loro più autorevole portavoce in Bernardo di Chiaravalle: "Fuggite da Babilonia, fuggite e salvate le vostre anime. Tu troverai molto di più nelle foreste che nei libri. I boschi e le pietre ti insegneranno più di quanto possa insegnarti qualsiasi maestro". E gli faceva eco Ruperto, abate di Deutz, il quale "ricordava che tutti i costruttori di città sono degli empi i quali, invece di accamparsi in questo luogo di passaggio che è la terra, vi si installano e vi installano gli altri. Scorrendo tutta la Bibbia, egli ne traeva un grandioso affresco antiurbano. Dopo la prima città costruita da Caino, dopo Gerico egli enumera Enoch, Babilonia, Assur, Ninive, Babele. Dio, afferma, non ama le città e i cittadini. E le città d'oggigiorno altro non sono che la resurrezione di Sodoma e Gomorra" (p. 63).
A Parigi le scuole più prestigiose sono quella cattedrale del Capitolo di Notre Dame, e quelle dei canonici di Saint-Victor e di Sainte-Geneviève; mentre gli insegnamenti di punta sono la teologia e la dialettica.
Nel variegato panorama del secolo si possono isolare alcune figure di intellettuali o di scuole di pensiero particolarmente influenti. Si parte dai cosiddetti clerici vagantes: "clericus" è l'intellettuale per definizione del Medioevo, e nel caso specifico costituiscono una sorta di "intellighenzia urbana" costituita da giovani studenti che si spostavano in massa da un posto all'altro, seguendo questo o quel maestro. Conosciuti anche come goliardi (da cui la nostra goliardia), essi sono "una razza di vagabondi", gente ai margini, anarchici e contestatori dell'ordine costituito, e per ciò tale considerati alla stregua di ribaldi, buffoni e perturbatori: "I Goliardi sono degli evasi. Evasi senza mezzi, essi formano nelle scuole urbane quei nuclei di studenti poveri che vivono d'espedienti, si adattano a divenir domestici dei loro condiscepoli ricchi, vivono di mendicità" (p. 28), perennemente attanagliati dalla fames Parisiana, 'la fame di Parigi' (Evrardo il Tedesco). L'incerta etimologia del nome è già un campionario di interpretazioni circa la loro pessima fama: filii Goliae, 'figli di Golia', incarnazione biblica del diavolo; o da gula, come a dire 'ghiottone', 'parassita'. Nei loro componimenti -raccolti nei celebri Carmina burana- le loro muse ispiratrici sono la triade gioco (a dadi), vino e amore, come nella parafrasi del nostro Cecco Angiolieri: "Tre cose solamente mi so' in grado, / le quali posso non ben ben fornire: / cioè la donna, la taverna e il dado, / queste mi fanno il cuor lieto sentire". Altri temi sono la critica alla società e l'attacco alla corruzione della Chiesa; quasi tutti figure anonime, tranne qualche caso: Ugo d'Orléans, l'Archipoeta di Colonia, o lo stesso Abelardo (i cui componimenti però, molto popolari all'epoca, sono andati purtroppo del tutto perduti).
Abelardo ed Eloisa (miniatura in un manoscritto del Roman de la Rose) |
Sferzante, ad es., il suo giudizio su Anselmo di Laon, alla cui scuola lui accorre come scolaro: "Mi accostai a questo vecchio che doveva la propria reputazione più alla sua grave età che al suo ingegno o alla sua cultura. Tutti coloro che si rivolgevano a lui per avere la sua opinione su un argomento nel quale si sentivano incerti, lo lasciavano più incerti di prima. Se ci si accontentava di ascoltarlo, egli sembrava ammirevole, ma se gli si rivolgevano delle domande rivelava tutta la propria nullità. Per la facondia era ammirevole, per l'intelligenza spregevole, per la ragione vuoto. La sua fiamma affumicava la casa invece di illuminarla. Da lontano il suo albero, tutto coperto di foglie, attirava lo sguardo, ma quando lo si guardava un po' più da vicino e con maggior attenzione, ci si accorgeva che non portava frutti". Ma Abelardo avvertiva con urgenza il legame indissolubile fra ricerca e insegnamento; la scienza, il sapere, non possono essere limitate a una cerchia ristretta di dotti, ma vanno diffuse e fatte circolare il più possibile. Così scriveva a Eloisa: "Quanto a noi, torniamo a Isacco e scaviamo con lui dei pozzi d'acqua viva, anche se i Filistei ci ostacolano, anche se resistono, continuiamo con perseveranza a scavar pozzi con lui, e scaviamo tanto profondamente che i pozzi sulle nostre piazze trabocchino d'acque soverchie così che la scienza delle Scritture non sia limitata a noi soli, ma insegniamo agli altri a berne".
Grande scuola di pensiero, fra XII e XIII secolo, fu infine la celebre Scuola di Chartres, dedicata soprattutto agli studi scientifici: "Le arti del trivium, grammatica, retorica, logica non v'erano sdegnate [...]. Ma a questo studio delle voces, delle parole, Chartres preferiva lo studio delle cose, delle res, ch'erano l'oggetto del quadrivium: aritmetica, geometria, musica, astronomia. Questo orientamento caratterizza lo spirito chartrense. Spirito di curiosità, d'osservazione, d'investigazione che splenderà alimentato dalla scienza greco-araba. La sete di conoscenza si spanderà talmente che il più celebre dei volgarizzatori del secolo, Onorio detto d'Autun, la riassumerà in una formula stupefacente: L'esilio dell'uomo è l'ignoranza; la sua patria, la scienza" (p. 51).
Cattedrale di Chartres (portale) |
Molti studenti muoiono, uccisi dalla polizia reale, finché, nel 1231, Luigi IX e Bianca di Castiglia riconoscono formalmente l'indipendenza dell'università dal potere politico, e le vengono riconosciuti importanti privilegi. Lo stesso succede ad Oxford, e poi a Bologna e in varie università italiane (Vicenza, Padova, Arezzo, Siena).
L'università di divide in quattro facoltà: Arti, Decretum o Diritto canonico, Medicina, Teologia, di cui le ultime tre sono dette superiori, dirette da maestri titolari o reggenti, con alla testa un decano; le Arti, invece, costituivano le materie umanistiche, ed erano di gran lunga le più affollate, con una divisione degli studenti in nazioni, cioè sulla base della loro provenienza. La sede delle lezioni è nelle chiese o nei conventi, mentre nel corso del secolo nasce la figura del rettore, quasi sempre quello della facoltà delle Arti, che, proprio per il numero degli iscritti, diventa in breve la facoltà-guida dell'università. A Bologna dominano le due facoltà di diritto, civile e canonico, mentre le nazioni sono divise fra citramontani (italiani) e ultramontani (stranieri).
L'insegnamento universitario medievale va dai 14 ai 20 anni per le Arti, divisi in due tappe: baccalaureato, dopo due anni, dottorato dal terzo al sesto anno. Medicina e Diritto venivano insegnati dopo, dai 20 ai 25 anni; la Teologia infine prescriveva otto anni di studi a partire da un'età minima di 35 anni, ma il percorso di studi poteva durare 15/16 anni: semplice uditore nei primi sei anni, studi biblici per quattro anni, commento alle Sentenze di Pietro Lombardo per due anni. L'insegnamento universitario consisteva essenzialmente in un commento ai testi: alle Arti predominano logica e dialettica (Aristotele e Cicerone); a Diritto canonico il Decretum di Graziano, a diritto civile il Corpus iuris civilis di Giustiniano (a Bologna aggiunte le leggi longobarde dei Libri Feudorum), a Medicina l'Ars Medicinae con testi di Ippocrate, Galeno, e summae arabe (il Canone di Avicenna, il Colliget o Correctorium di Averroè, l'Almansor di Rhazes); a Teologia la Bibbia, il Liber sententiarum di Pietro Lombardo e l'Historia Scholastica di Pietro Mangiadore. Gli strumenti degli studenti (ce ne informa Giovanni di Garlandia) sono: libri, un leggio, una lampada notturna a sego e un candeliere, una lanterna, un imbuto con inchiostro, una penna, un filo a piombo e un regolo, un tavolo, una bacchetta, una cattedra, una lavagna, una pietra pomice con raschino e del gesso.
Gli studenti seguivano dei corsi tenuti da famosi professori, e registravano tutto in appunti e relazioni (relationes), molte delle quali giunte fino a noi, e che gli studenti si passavano fra di loro. La base del lavoro di trascrizione è la pecia: "una prima copia ufficiale dell'opera che si vuol mettere in circolazione è fatta su quaderni di quattro fogli, lasciati indipendenti l'uno dall'altro. Ognuno di questi quaderni, fatti di una pelle di montone piegata in quattro, si chiama pecia (pezzo). Grazie a questi quaderni, che i copisti prendono in consegna l'uno dopo l'altro, e la riunione dei quali costituisce ciò che vien detto l'exemplar, lo spazio di tempo che sarebbe stato necessario a un solo copista per fare una sola copia diventa sufficiente, nel caso di un'opera che comprenda una sessantina di quaderni, perché una quarantina di scribi possano operare ciascuno la propria trascrizione su un testo corretto sotto il controllo dell'Università e diventato in certo modo un testo ufficiale" (J. Destrez, La pecia dans les manuscrits universitaires di XIII et du XIV siècle, Paris 1935). Gli Statuti dell'Università di Padova dichiarano nel 1264: "Senza esemplari non ci sarebbe Università". Nel XIII secolo cambia anche il formato dei libri: nell'Alto Medioevo erano grandi, simili ai nostri in-folio, ma tale formato si addiceva alle biblioteche delle abbazie; il manuale universitario, invece, deve essere piccolo e maneggevole. Anche la scrittura passa dalla severa libraria al minuscolo gotico, di pari passo con il passaggio dalla canna alla penna d'uccello, generalmente d'oca; d'altro canto però i libri si impoveriscono nella decorazione, tranne quelli dei giuristi che appartengono a classi sociali elevate; prodotti poveri e privi di decorazione sono invece i libri degli artisti (letterati, filosofi e teologi), in cui talvolta gli spazi per le miniature sono lasciati in bianco, per dar la possibilità a un acquirente successivo più ricco di completare la decorazione. Per copiare più in fretta aumenta il ricorso alle abbreviazioni, c'è il ricorso alla numerazione delle pagine (prima non sempre presente), agli indici e alla tavola del manoscritto, tutto per favorire la consultazione rapida. Troviamo così copisti di professione, librai (stationarii) e studenti che fanno i copisti per pagarsi le spese di studio.
Gli esami variano a seconda delle università: il giurista bolognese superava due tappe, un esame vero e proprio (examen privatum) e una sezione pubblica (conventus publicus o doctoratus), che era in realtà una cerimonia di investitura. Al candidato, dopo aver assistito alla messa mattutina, venivano dati due passi da commentare: egli si ritirava nella propria camera per preparare il commento, che esponeva poi la sera in pubblico, generalmente in cattedrale, davanti a una commissione che dopo il commento poneva delle domande al candidato. Se giudicato idoneo, il candidato otteneva la licentia e veniva ammesso all'esame pubblico, in cui doveva tenere un discorso e discutere una propria tesi avversa contro gli studenti, che lo attaccavano. Se il candidato superava anche questa prova, otteneva la licenza di insegnare insieme ai simboli della sua funzione: una cattedra, un libro aperto, un anello d'oro, la berretta (o tòcco). Gli esami erano intervallati da regali, feste e banchetti, tutto a spese del candidato, e costituivano un rito di passaggio tradizionale, variabile a seconda del paese (balli in Italia, corse di tori in Spagna); esattamente come il rito di passaggio all'ingresso dell'università che costituiva una sorta di "purgazione", per spogliare la matricola dalla sua rozzezza (ce ne informa nei dettagli il Manuale Scolarium, curioso documento di età posteriore, precisamente del XV secolo).
All'università erano previste e regolate numerose attività di devozione religiosa: partecipare a messe o a cerimonie religiose, atti di beneficenza, opere pie, elevare preghiere e inni, soprattutto alla Vergine Maria e a san Nicola, patrono degli studenti.
Il chierico, l'astronomo e il computista (miniatura dal Salterio di S. Luigi - XIII sec.) |
Ma come si mantenevano professori e studenti? E' questo un lungo dilemma che caratterizzerà l'Università medievale, sostanzialmente divisa fra salario o beneficio per i professori, e borsa o prebenda per lo studente. In linea di massima la tendenza per i professori è farsi mantenere dai propri allievi, o facendosi pagare o accettando doni in natura (per esempio lo Statuto dei dottori di Padova afferma che "il dottore... riceverà dallo studente quale riconoscimento del suo lavoro tre libbre di stoffa e quattro fiaschi di vino o un ducato"). Spesso però gli studenti non pagavano, e i professori se ne lamentavano: "Vi annuncio che l'anno prossimo farò i corsi obbligatori" scrive ad esempio Odofredo da Bologna "ma sono incerto sul fare dei corsi straordinari perché gli studenti non sono buoni pagatori: vogliono sapere ma non vogliono pagare, conformemente a questo motto: Tutti vogliono istruirsi ma nessuno vuol pagare il prezzo del sapere". La tendenza per gli studenti, invece, è farsi mantenere dalle proprie famiglie o da un benefattore. D'altro tutto ciò contrastava con la volontà della Chiesa che in più occasioni (Concilio Laterano III del 1179, ecc.) aveva proclamato la gratuità dell'insegnamento. Tale atteggiamento da parte della Chiesa si giustificava sia per poter assicurare l'insegnamento agli studenti poveri; sia per la concezione della predominanza dell'insegnamento religioso, che era dono di Dio e che pertanto non si poteva vendere, pena incappare nel peccato di simonia: san Bernardo, per esempio, aveva pubblicamente denunciato i guadagni dei maestri come vergognosi profitti (turpis questus est).
Un'ulteriore motivo di disputa all'interno dell'Università -fra XIII e XIV secolo- fu il contrasto fra maestri secolari e nuovi Ordini mendicanti (Domenicani in primis, Francescani poi) che avevano invaso l'ambiente universitario, accaparrandosi posti prestigiosi, soprattutto nella facoltà di Teologia. Se l'ingresso nel mondo universitario era una logica conseguenza per i Domenicani, portati costituzionalmente alla formazione intellettuale per la predicazione e la lotta contro l'eresia; non così per i Francescani, dilaniati da lotte interne al riguardo, e che vedeva nell'opposizione alla scienza e al sapere accademico lo stesso fondatore dell'Ordine e i più rigidi osservanti dello spirito iniziale del movimento (la corrente degli Spirituali su tutti). A Parigi i contrasti più violenti fra secolari e Mendicanti risalgono agli anni 1252-1259 (con l'uscita di un libello polemico contro i Mendicanti, dal titolo Libellus de periculis novissimorum temporum, 'Libello intorno ai pericoli dei tempi nuovi', opera del maestro parigino Guglielmo di Saint-Amour), 1265-1271 e 1282-1290; cui seguiranno analoghi contrasti a Oxford e altrove. La Chiesa però si schiera a favore dei Mendicanti (Alessandro IV con le bolle Nec insolitum del 22 dicembre 1254 e Quasi lignum vitae del 14 aprile 1255), segnando il loro trionfo sui secolari e la contemporanea stretta di controllo della Chiesa sui secolari, che perdono perciò ogni residuo di indipendenza così faticosamente conquistata.
Dal punto squisitamente dottrinale, invece, l'Università del XIII secolo comincia a spaccarsi fra aristotelici (soprattutto domenicani) e platonici (agostiniani), e addirittura i primi si dividono a loro volta fra coloro che cercano di conciliare Aristotele con la Scrittura (Alberto Magno, Tommaso d'Aquino), e coloro che leggono Aristotele attraverso la lettura di Averroè (Sigieri di Brabante, capo degli averroisti), che comprendono la sostanziale contraddizione e incompatibilità fra Aristotele e la Scrittura, la accettano e inventano la nota dottrina della duplice verità, ragione e filosofia contro fede e rivelazione, entrambe vere ma su piani diversi.
Il XIV secolo è insieme il culmine e il declino del Medioevo, compreso il declino dell'intellettuale medievale. Dal punto di vista degli studenti spariscono quasi del tutto quelli poveri o di estrazione sociale modesta, che costituivano il fulcro dell'Università medievale: a Padova, ad esempio, per disposizione statutaria è ammesso un solo studente povero per facoltà, a spese dell'Università: "misura teorica che salvaguardia il principio difeso dalla Chiesa, è l'equivalente dell'obolo di Dio che il grosso mercante sottrae ai propri profitti per darlo ai poveri" (p. 129). Lo studente deve quindi mantenersi da solo o essere mantenuto da un qualche facoltoso protettore. I maestri, d'altro canto, si avviano a diventare una casta ereditaria che si trasmette ai figli e si arricchisce anche tramite usura, prestando cioè denaro ai propri studenti trattenendo in pegno libri e quant'altro. "A Padova, nel 1394, vien decretato l'ingresso gratuito nel collegio dei giureconsulti per qualunque dottore appartenente alla discendenza maschile di un dottore, anche se uno degli intermediari non è stato dottore. Nel 1409 si precisa che un figlio di dottore deve subire l'esame gratuitamente. Questa oligarchia universitaria, mentre contribuiva ad abbassare notevolmente il livello intellettuale, conferiva al mondo universitario uno dei caratteri essenziali della nobiltà: l'ereditarietà. I professori diventavano una casta" (p. 132). Questo nuovo atteggiamento si nota da una serie di elementi: la cattedra si adorna spesso di un baldacchino d'aspetto signoresco, i maestri indossano la cappa lunga, il cappuccio di vaio e d'ermellino, e lunghi guanti bianchi. Il titolo di magister, che nel XII secolo equivaleva a 'capolaboratorio', un maestro di scuola come lo sono tanti artigiani; nel XIV secolo il termine diventa invece sinonimo di dominus, 'signore', e nobiles viri et primarii cives sono definiti nei documenti i maestri di Bologna. La scienza diventa quindi possesso e tesoro, e i nuovi intellettuali considerano il lavoro manuale con profondo disprezzo, come i nobili e secondo la rinnovata mentalità greco-latina.
Le Università del XIV secolo perdono anche il loro carattere internazionale: ciò è dovuto alla fondazione di numerose nuove università, a base nazionale prima, addirittura regionale poi. La Scolastica, soprattutto sotto i colpi del "rasoio di Occam", perde il suo dominio incontrastato e si avvia a un declino irreversibile. L'intellettuale umanista diventa a tutti gli effetti un aristocratico, e come tale abbandona la città per un ritorno alla campagna, sfugge le masse in favore dell'isolamento; secondo le ultime parole dello storico (pp. 167-8): "Così gli umanisti abbandonano uno dei compiti principali dell'intellettuale [medievale], il contatto con la massa, il legame tra scienza e insegnamento. Nulla è più evidente del contrasto offerto dalle immagini che raffigurano il lavoro dell'intellettuale del Medioevo in confronto con quelle in cui appare l'umanista. Il primo è un professore, sorpreso nel momento in cui insegna, circondato di allievi, assediato dai banchi nei quali si stringono gli ascoltatori. L'altro è un dotto solitario nel suo studio tranquillo. Nel primo caso abbiamo il tumulto delle scuole, la povere delle aule; nel secondo un ambiente in cui
tutto è ordine e bellezza,
lusso, calma e voluttà"
(C. Baudelaire, L'invitation au voyage).
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