C. M. Martini, Verso la luce. Riflessioni sul Natale


Il libro di Carlo Maria Martini, Verso la luce. Riflessioni sul Natale (San Paolo, 2013, pp. 156, euro 9.90), è una raccolta postuma delle omelie natalizie del cardinale pronunciate durante il suo episcopato a Milano.
Come sottolinea il titolo, il centro della riflessione del cardinale è il contrasto "luce/tenebre": "La salvezza di cui noi essere umani abbiamo bisogno è di essere liberati dalle tenebre che ci avvolgono, che ci rendono inquieti, preoccupati, timorosi. Nella tenebra, simbolo del caos e della morte, sorge improvvisamente una luce, quasi per miracolo. Questa luce è un bambino mandato da Dio" (pp. 36-37). Partendo dalle letture che la liturgia propone per la notte di Natale, il cardinale sviluppa le sue riflessioni per tappe: dal brano del profeta Isaia 9 ("Il popolo che camminava nelle tenebre / ha visto una grande luce; / su coloro che abitavano in terra tenebrosa / una luce rifulse", p. 21), il cardinale argomenta che "quella di cui parla il profeta è la luce di Dio che rifulge nelle tenebre del peccato, in quello stato di oscurità in cui l'uomo si trova e che gli impedisce di conoscere Dio, di conoscere sé stesso e di conoscere il proprio futuro" (pp. 22-23). Le tenebre, secondo Martini, sono di tre tipi: "Le più immediate da riconoscere sono quelle tenebre costituite dai singoli crimini che oscurano e abbruttiscono la storia umana, come violenze, rapine, furti, tradimenti, disonestà, infedeltà; sono le tenebre che offuscano l'anima di ciascuno di coloro che commettono questi fatti, sono le tenebre dei nostri peccati personali" (p. 79). Esistono poi le tenebre "che si potrebbero chiamare aberrazioni sociali, cioè tutte le forme di disordine che guastano la società e la disgregano" (p. 79); da ultimo ci sono, ben più peggiori delle precedenti, "le tenebre costituite da una cultura, da una mentalità, da un sentire collettivo che, avendo perso il senso dei valori più alti, non trova in sé neppure la forza per riorientarsi e per smascherare, superare e contrastare le aberrazioni sociali. E' tenebra questa che riguarda i giudizi ultimi sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza, sul perché siamo uomini e donne qui sulla terra; è la perdita della speranza di un futuro eterno per l'uomo: è la tenebra più spessa e impenetrabile" (p. 80).
"Le tenebre dunque ricoprono la Terra, nebbia fitta avvolge le nazioni: sono le tenebre della paura di credere, della paura di affidarsi all'amore di Dio Padre, è la nebbia di una competizione sfrenata che non fa più vedere il volto del fratello" (pp. 22-23). Ritornando al passo del profeta, il popolo di cui parla Isaia "si trova dunque in un grande buio, come chi cammina nelle tenebre e non sa dove andare, non sa dove mettere i piedi, dove sbattere la testa, non ha speranza. Ecco allora che avviene l'annuncio: Il popolo che camminava nelle tenebre / ha visto una grande luce; / su coloro che abitavano in terra tenebrosa / una luce rifulse" (p. 24). Da ciò il cardinale deduce una scansione storica in quattro tappe del cammino verso Dio: "il tempo delle tenebre e della nebbia, il tempo della luce del Signore che viene, il tempo dell'essere illuminato e del lasciarsi illuminare da questa luce, e infine il tempo del cammino dei popoli verso questa luce" (p 27). Ma non solo al popolo di Israele, "siamo tutti noi coloro a cui viene rivolta l'esortazione sii luce" (p. 30).
La luce che viene a diradare le tenebre dell'uomo è dunque Dio, che diventa nella storia Dio che si fa carne, l'Emmanuele, il Dio-con-noi: in questo modo "il Signore viene a riempire i nostri occhi della sua luce, viene a riscaldare il nostro cuore con il suo fuoco, viene a cancellare le nostre rovine esteriori e interiori" (p. 41). Dio in pratica ci dà una speranza di salvezza e di riscatto dalle nostre piccole e grandi miserie: "La gente, l'umanità, la storia, il popolo hanno trovato finalmente il loro punto di riferimento, hanno trovato colui che salva, cioè che tira fuori dall'angoscia, dalla paura, dal male, dalla guerra, dall'odio e dalla morte. 
Dunque la speranza dell'uomo che la vita abbia un senso, che la vita sia più bella degli eventi singoli che viviamo, soprattutto più bella degli eventi dolorosi che continuamente costellano il cielo della nostra esistenza, tale speranza si avvera. E' veramente bello vivere, è bello guardare al futuro, è bello sperare perché c'è un Salvatore, il Cristo Signore, nel quale ogni nostra speranza diviene realtà e diverrà realtà. Non siamo più soli e smarriti, c'è uno che ci guida, che si prende cura di noi, e questi è il Cristo, il Messia, cioè mandato da Dio: Dio lo ha deputato a salvare l'umanità" (pp. 37-38). Se quindi Gesù viene veramente accolto nel cuore dell'uomo "cambia tutto: cambia la vita, cambia la storia, cambia l'eternità. Tutto è nuovo, tutto può acquistare senso, tutto ha senso; tutto il dolore è intriso di speranza, tutta la gioia è soffusa di moderazione e di scioltezza, tutto il lavoro è vissuto come qualcosa che davvero costruisce, o qui o poi, la casa dove abitare" (p. 44). Infatti "con il Natale  è stata proclamata quella parola del Signore che ci comunica la cosa più semplice ma più essenziale, cioè che non siamo stati abbandonati e soli in un mondo venuto fuori per caso, non siamo sballottati in un vortice di eventi senza significato [la polemica è qui contro il concetto di gettatezza ['Geworfenheit'] di Heidegger e di molto Esistenzialismo], ma siamo amati senza limiti, siamo amati senza essercelo meritati" (p. 53). La salvezza del Signore, inoltre, non viene rivolta solo ai buoni e ai giusti, ma anche -se non soprattutto- ai peccatori, proprio secondo le parole di Gesù per cui "non i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati" (Marco 2, 17); scrive in merito il cardinal Martini: "Spesso noi cristiani siamo soliti pensare che si debba prima essere buoni e giusti per poi meritare di essere amati da Dio: ma questo modo di pensare è sbagliato. La rivelazione della notte di Natale ce lo ridice: noi abbiamo bisogno prima di essere amati da Dio e di essere certi del Suo amore perdonante per potere poi diventare buoni e amarLo a nostra volta e amarci tra noi. [...] E' questa proclamazione fondamentale che dobbiamo accogliere con la gioia semplice dei bambini: siamo amati così come siamo, malgrado tutte le nostre inadeguatezze, malgrado i nostri mali oscuri, anzi, anche motivo di essi" (pp. 53-54). 
Se Dio ha mandato il suo Figlio Unigenito quale luce a riscatto dell'umanità immersa nelle tenebre, appare in tutta la sua evidenza -secondo il cardinal Martini- che Dio ama l'uomo, ed è Lui per primo a prendere l'iniziativa (Capitolo IV: L'iniziativa di Dio): "Presupposto di ogni ricerca umana di Dio è che Dio si dona all'uomo, Dio per prima ci cerca. La sottolineatura prima è dunque quella dell'iniziativa divina: è Dio che si dona all'uomo mediante i segni, mediante manifestazioni ed epifanie; Epifania significa appunto manifestazione del dono di Dio" (pp. 48-49). Infatti "dalla dinamica dell'evento del Natale emerge in maniera prepotente [...] il metodo che Dio utilizza con l'uomo. Dio, infinito ed eterno, che è al di sopra di tutto, si è preso cura di quest'ultimo nato della creazione che è l'uomo, si è chinato verso di lui, ne ha voluto fare un tu capace di dialogo con Lui; anzi, Dio si è congiunto all'uomo in maniera così mirabile e imprevedibile da far sorgere sulla terra una creatura umana, Gesù, che ha in sé la pienezza irraggiungibile della divinità. [...] Dio ha dunque in sé una inclinazione amorosa e misericordiosa così grande verso la creatura-uomo da voler partecipare da vicino non solo alla nostra storia felice, ma anche alla nostra storia disgraziata", come dimostra il fatto che Gesù nasce in una capanna nel deserto, all'interno di una mangiatoia (pp. 47-48).
La conclusione non può che essere consolante: "Se tutti credessero davvero di essere infinitamente e appassionatamente amati da Dio, scomparirebbero dalla faccia della terra le guerre, le violenze e i conflitti e spunterebbe, come un fiore, una civiltà di pace e di armonia" (pp. 49-50).
Infine il cardinal Martini analizza il brano evangelico della nascita di Gesù (Mt 2, 1-12), isolando, come in una pièce teatrale, i vari protagonisti: Erode, gli scribi di Gerusalemme, i tre Magi, i pastori, ciascuno dei quali, in nome della libertà accordata all'uomo, rappresentano figure dell'accoglienza del messaggio divino o del suo rifiuto (Capitolo V: Accoglienza e rifiuto). In particolare Erode e gli scribi rappresentano il rifiuto del messaggio salvifico -per paura del nuovo, per attaccamento alle vecchie tradizioni di Israele, o per sola sete di potere minacciata da Gesù-, mentre i pastori e i Magi incarnano l'accoglienza: i pastori -categoria ai margini della società ebraica del tempo- rappresentano gli ultimi; così come i Magi incarnano il popolo dei Gentili, ossia dei pagani cui si estende in chiave universale il messaggio di Dio. Questi ultimi, in particolare, secondo il cardinal Martini, "simboleggiano il pellegrinaggio dell'umanità verso l'incontro col Signore, [...] simbolo di quel grande pellegrinaggio globale, di quella carovana di generazioni e di culture che cercano, ciascuno per conto proprio o in comune con altri, di decifrare gli ardui e affascinanti confini dell'esistenza" (p. 68). L'Epifania pertanto, che è la festa dei Magi, "è la festa del viaggio dell'uomo che cerca Dio, dell'uomo che Lo cerca nel pellegrinaggio della propria vita; è la festa di ogni uomo e ogni donna che, avendo cercato Dio, Lo trova e avendoLo trovato, ancora Lo cerca, così come avviene per tutti noi. Il nostro è un pellegrinaggio compiuto con pazienza, con perseveranza, ricominciando ogni giorno, attraverso tante insidie proprio come i Magi, lasciandoci guidare dal segno di una stella e superando tutte le difficoltà della gente e dell'ambiente circostante" (p. 120).
Il Bambino nella mangiatoia, solo, indifeso, alla mercé di tutti, qualifica inoltre Gesù come "principe della pace", che "non ha dunque nulla a che fare con la gestione imperialistica della pace, con una pace imposta con la forza: la sua forma di bambino insegna che un potere non può essere oppresso o soppresso da un altro potere, una guerra non può essere conclusa da un'altra guerra e non si può eliminare la violenza con la violenza" (pp. 129-130). Questa riflessione, per così dire politica da parte del cardinal Martini, viene rivolta anche alla situazione di Gerusalemme e della Terra Santa: "è necessario [...] porre fine alla tragica situazione della Terra Santa, del luogo della vita, morte e resurrezione di Gesù, principe della pace. Se ci sarà pace, ci sarà perché c'è pace a Gerusalemme, e se ci saranno ancora guerre ci saranno perché ci sono ancora guerre che minacciano Gerusalemme. [...] Gerusalemme è un simbolo universale e la pace in quella terra pace che bisogna invocare con tutto il cuore in ogni occasione, ha valore di simbolo per la pace di tutti i popoli" (pp. 137-138).
Da ultimo il cardinal Martini, proprio sulla base della nascita povera e nell'emarginazione decritta dal Vangelo di Matteo, nota che "il Vangelo mette al centro di tutto, ciò che è piccolo, solitario, povero, debole, respinto, emarginato. [...] Gesù Bambino insegna che Dio non è solo grande, lontano, immenso, eterno, ma che si è fatto prossimo all'uomo e non semplicemente come chi porta dei doni ma anche come chi condivide i bisogni umani, le sofferenze umane della solitudine, dell'esilio, dello sfratto, i dolori, la povertà. Quindi dal bambin Gesù impariamo che Dio non è solo grandezza ma è anche misteriosamente, in un qualche modo, piccolezza, Egli si fa piccolo. [...] C'è in Lui qualcosa che non sapremmo come definire e che in noi si chiama umiltà: accettare l'ultimo posto, la mangiatoia delle bestie dove non si metterebbe nessun uomo" (pp, 95; 96-97). "La conclusione è che se il Natale è un momento della manifestazione di Dio, in esso Dio si manifesta diversamente da come noi di solito tenderemmo a immaginarceLo, cioè colui che sta in alto, che sta al di sopra di tutto e che dalla sua trascendenza domina l'universo: si manifesta infatti come colui che discende, colui che si abbassa. [...] Ne segue che caratteristica divina nell'uomo e quindi in ciascuno di noi non è tanto la nostra capacità di trascenderci, di metterci al di sopra degli altri, quanto la capacità di abbassarci, di servire per amore, di farci poveri coi poveri" (pp. 100-101; 103). 
In questo passaggio conclusivo la sensibilità squisitamente da gesuita del cardinal Martini si fonde con quella tipicamente francescana: oltre che ad abbassarsi, a prendere umilmente il posto degli ultimi, bisogna saper vivere la sobrietà che "è l'opposto del consumismo, del bisogno di sempre cose nuove, ed è la virtù antica e difficile del sapersi accontentare" (p. 106). In quest'ottica "Natale si manifesta come una festa anticonsumistica, una celebrazione che acquista il suo senso nell'umiltà e nella bontà" (pp. 106-107), vivendo con i poveri, per i poveri e da poveri noi stessi nel nostro cuore, facendoci a nostra volta poveri dentro. Infatti "Se Dio, in Gesù, si è così coinvolto con l'uomo da farsi come uno di noi, ne segue, secondo la parola stessa di Gesù, che qualunque cosa avremo fatto a uno dei più piccoli, l'abbiamo fatta a Lui [...] Chi avrà nutrito, vestito, accolto, uno dei più piccoli e più poveri tra gli uomini, avrà nutrito, accolto, amato lo stesso Figlio di Dio. Chi avrà respinto, ricacciato indietro, dimenticato, trascurato uno dei più piccoli e più poveri ta gli uomini, avrà respinto, ricacciato indietro, trascurato Dio stesso, lo stesso Figlio di Dio" (pp. 108-109).
E francescanamente il libro del cardinal Martini si conclude con una preghiera di affidamento alla Vergine Maria, tanto amata e invocata quale madre da Francesco: "La notte di Natale affidiamo le nostre intercessioni e le nostre preghiere, i nostri desideri a Maria, Madre di Gesù. Lei, nel silenzio adorante, contempla il volto del Verbo che da lei ha preso carne e, in Lui, contempla il volto di tutti gli uomini e le donne della terra, specialmente dei più sofferenti nel corpo e nello spirito" (p. 156).

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