Eschilo e la tragedia greca


Eschilo (525 a.C. - 456 a. C.)
Eschilo è il primo dei tre grandi tragici greci e quello più "arcaico", quello cioè in cui più traspare il senso del tragico secondo i Greci, che in Euripide (l'ultimo dei tragediografi) scadrà fino a risolversi in dramma. La tragedia, diversamente appunto dal dramma, ha un solido impianto metafisico: il dolore, la sofferenza dei protagonisti, non sono provocati per es. da lotte o contrasti fra uomini (questo è il dramma), ma sono la necessaria conseguenza di una colpa originaria, di un peccato da parte dell'uomo (generalmente di ùbris), che gli dèi poi puniscono, sia pure di generazione in generazione. 
Questa la linea portante del pensiero eschileo. Purtuttavia nel mito greco esistono molte figure di "giusto sofferente", incolpevoli del male che subiscono e vittime di un Fato cieco e imponderabile che li travolge: Edipo, Aiace, Ippolito, Ecuba e Andromaca; tutte però figure non presenti nel repertorio eschileo a noi giunto, sicché è arduo immaginare di come Eschilo poteva concepirle. In Sofocle esse incarnano l'impianto metafisico del perché di tale sofferenza, gratuita e inspiegabile, con variegati tentativi di razionalizzazione (su tutti la ftònos teòn, 'l'invidia degli dèi' nei confronti della felicità umana).
In genere nella tragedia greca "appare fondamentale il senso di una realtà che travalica l'individuo, e con la quale l'individuo è impegnato in uno scontro drammatico che lo vede soccombente", da cui l'idea che la tragedia greca sia "un modo di porsi di fronte alla realtà" (sono entrambe citazioni da Eschilo, Orestea, introduzione di V. Di Benedetto e note di E. Medda, L. Battezzato, M. P. Pattoni, Milano, BUR 2008, pp. 5-6). Le caratteristiche della tragedia greca sono pertanto il conflitto fra uomo e dio (o Fato), la contraddizione della realtà, ma anche la consapevolezza da parte del protagonista di tale conflitto e di tali insanabili contraddizioni del reale. Da quest'aspetto derivano due elementi tipici della tragedia: l'ironia tragica, che si crea ogniqualvolta lo spettatore è ben consapevole di quello che sta accadendo sulla scena al protagonista, laddove il protagonista stesso non riesce ancora a dipanare i fili della rete in cui è caduto, con l'effetto di sembrare (ciò in Eschilo è frequentissimo) una ridicola marionetta nelle mani degli dèi. L'altra caratteristica è la visione negativa della verità: "la verità nella tragedia greca non è la verità della scienza [...] e non trova in sé motivo di compiacimento per avere acquisito nuova conoscenza. La verità che consegue Edipo nell'Edipo re o Agaue nelle Baccanti è una verità che dà sofferenza, è una infelice verità" (Di Benedetto, cit., p. 10); ma ciò non esclude però che la Verità (con la V maiuscola) esiste e soprattutto va conosciuta. Si pensi a Edipo (in Sofocle) che uccide il padre e sposa la madre: per lui sarebbe meglio non sapere che sapere; eppure la pestilenza che affligge la città di Tebe (inflitta, si badi, dagli dèi) non cesserà finché Edipo non abbia scoperto l'assassino di Laio, ossia se stesso: gli dèi condannano alla Verità, cui si giunge attraverso la sofferenza (pàthei màthos, 'conoscere attraverso il dolore').
Edipo a colloquio con la Sfinge 
(vaso a figure rosse, 450-440 a.C.)
Questo quadro vale per l'intero panorama dell'antica tragedia greca. Eschilo però, rispetto a Sofocle e Euripide, presenta un'accentuata finalità didattica rivolta all'ambito etico-religioso ma anche politico (si veda V. Di Benedetto, L'ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Torino, Einaudi 1978). Da un punto di vista etico-religioso in Eschilo è molto forte un'idea deterministica: alla colpa segue immediatamente la punizione, e gli uomini sono del tutto in balìa degli dèi, anche al di là della propria volontà. Per es. nell'Agamennone Clitennestra rispondendo al Coro sul delitto appena perpetrato ai danni del marito, si difende appellandosi al demone degli Atridi, la cui maledizione si è riversata sulla stirpe dopo l'efferato delitto di Atreo nei confronti del fratello Tieste: "a fronte di un tale concetto l'iniziativa dell'uomo appare come irrilevante" (Di Benedetto, cit., p. 50).
Da un punto di vista politico, invece, "un principio fondamentale dell'ideologia eschilea e della cultura della classe dirigente della società greca arcaica [è] il restare, la stabilità, che è stabilità della casa e della legge" (Di Benedetto, cit., p. 127). La tragedia greca si pone quindi come una sorta di arte di Stato, laddove lo Stato, rigorosamente etico, finanzia la rappresentazione di opere teatrali che devono essere volte all'educazione morale e civica dei cittadini della pòlis. Per Eschilo esiste un limite oggettivo che i cittadini, per essere tali, non devono superare, nel senso che non è lecito. Nelle Eumenidi la paura è alla base del rispetto delle leggi: "Talvolta è bene ciò che è pauroso (deinòn), e deve restare, assiso, e vigilare sulle menti degli uomini. Giova essere saggi per via di costrizione. E chi, nella luce del suo cuore, nulla temendo -o città oppure un uomo mortale- potrà ancora venerare la Giustizia?" (Eumenidi, vv. 517-525). In pratica "il deinòn [...] esercita per così dire un'azione preventiva, nel senso che esso limita le possibilità di movimento, impedisce che il singolo e la pòlis si allontanino da un atteggiamento di saggezza. [...] Attraverso la minaccia di sanzioni lo Stato impedisce che si commettano ingiustizie" (Di Benedetto, cit., p. 103). Il limite che l'uomo non può quindi varcare, allontanandosi da una norma di saggezza (che a sua volta regola la vita comunitaria della pòlis), è custodito dalla paura, la paura delle sanzioni penali che lo Stato può comminare all'individuo.
La regola del retto governo, ma anche, più in generale, della vita morale dell'individuo, è secondo la tragedia greca il medèn agàn 'niente di troppo', la giusta misura o aurea mediocritras di oraziana memoria. Niente forse esprime meglio tale concetto che un pensiero di Solone, grande legislatore ateniese dell'età arcaica: "Il dèmos ("il popolo") seguirà nel modo migliore i suoi capi quando né lo si lasci andare troppo né lo si opprima con la forza" (Frammento 6). 

Commenti